Non solo Gaza. Non c’è pace tra Francesco e gli ebrei

C’è un’altra guerra in corso, oltre a quella tra Israele e Hamas, nella terra che fu di Davide e di Gesù. È la guerra tra papa Francesco e gli ebrei, politica e religiosa insieme.

La sua fiammata più incendiaria è stata, il 22 novembre, la doppia udienza che il papa ha dato a familiari di ostaggi ebrei nelle mani di Hamas e, separatamente, a parenti di palestinesi detenuti nella carceri israeliane.

La differenza degli uni dagli altri è abissale. Gli ostaggi ebrei sono uomini, donne, bambini, strappati dalle loro case e villaggi il 7 ottobre durante un eccidio di crudeltà inaudita compiuto da Hamas, con più di 1200 vittime inermi, neonati sgozzati, fanciulle violentate, mutilate, uccise. Mentre i detenuti palestinesi sono terroristi e aggressori di cui è in corso la condanna o il processo.

Ma non c’è stata traccia di distinzione tra Israele e Hamas nelle parole del papa a udienze concluse, in piazza San Pietro. A Gaza, ha detto riferendosi a entrambe le parti, “siamo andati oltre le guerre, questo non è guerreggiare, questo è terrorismo”.

Non solo. Nella successiva conferenza stampa tenuta da una decina di palestinesi che avevano preso parte all’incontro, una di loro, Shireen Anwad Hilal, che insegna al Bethlehem Bible College, ha riferito che il papa, al racconto dei bombardamenti israeliani su Gaza con le tante vittime civili, ha esclamato: “Questo è genocidio”, senza che nessuno avesse usato prima di lui quella parola. E gli altri hanno confermato: “Eravamo tutti lì, l’abbiamo sentito e nessuno di noi ha problemi di udito”.

Dal Vaticano hanno provato a correggere. “Non risulta che il papa abbia usato quella parola”, ha detto il capo dell’ufficio stampa Matteo Bruni. E il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato: “È irrealistico che il papa abbia parlato di genocidio”.

Nessuno ha preso per credibili queste smentite, ma già bastava la qualifica di “terrorismo” applicata dal papa alla guerra d’Israele a Gaza e mai invece, in forma chiara e distinta, alla strage degli innocenti compiuta da Hamas il 7 ottobre, per provocare la reazione corale di tutti i rabbini d’Italia, in una dichiarazione resa pubblica il 23 novembre, che così termina:

“Queste prese di posizione al massimo livello seguono dichiarazioni problematiche di illustri esponenti della Chiesa in cui o non c’è traccia di una condanna dell’aggressione di Hamas oppure, in nome di una supposta imparzialità, si mettono sullo stesso piano aggressore e aggredito. Ci domandiamo a cosa siano serviti decenni di dialogo ebraico-cristiano parlando di amicizia e fratellanza se poi, nella realtà, quando c’è chi prova a sterminare gli ebrei, invece di ricevere espressioni di vicinanza e comprensione, la risposta è quella delle acrobazie diplomatiche, degli equilibrismi e della gelida equidistanza, che sicuramente è distanza ma non è equa”.

Proteste altrettanto severe sono venute anche dall’American Jewish Committee e dal Simon Wiesenthal Center: “Tutte le sofferenze patite dalle famiglie degli ostaggi e dai civili di Gaza sono dovute ai terroristi di Hamas, che il 7 ottobre hanno compiuto, nel modo più brutale, il peggiore sterminio di massa di ebrei dopo la sconfitta della Germania nazista”.

Tornando a sabato 7 ottobre e a quella terribile strage degli innocenti, effettivamente va registrato che la prima reazione di papa Francesco è stata blanda. All’Angelus del giorno successivo ha solo lamentato un generico esplodere della “violenza” e a proposito della prevedibile reazione militare di Israele ha detto per la prima volta quello che avrebbe poi ripetuto senza sosta: che “ogni guerra è una sconfitta, sempre”.

Ma ancor più intollerabile, per gli ebrei, è stata la dichiarazione congiunta pubblicata depo la strage del 7 ottobre dai patriarchi e capi delle Chiese di Gerusalemme. In due successivi comunicati, l’ambasciata d’Israele presso la Santa Sede vi ha ravvisato e denunciato “l’immorale ambiguità” della mancata distinzione tra gli aggressori e le vittime: “È particolarmente incredibile che un documento così arido sia stato firmato da persone di fede. Non è fuori contesto ricordare che oggi avrà inizio presso l’Università Gregoriana un convegno di tre giorni sui documenti del pontificato di papa Pio XII e sul loro significato per le relazioni ebraico-cristiane. A quanto pare, qualche decennio dopo, c’è chi non ha ancora imparato la lezione del recente passato oscuro”.

Nei giorni successivi, in un’intervista al quotidiano dei vescovi italiani “Avvenire”, l’ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede Raphael Schutz ha apprezzato i passi compiuti da alti esponenti della Chiesa cattolica per ricucire la frattura: una visita in ambasciata del segretario di Stato Parolin con parole di netta condanna del “disumano” attacco di Hamas e l’offerta di sé come ostaggio al posto dei bambini rapiti fatta dal patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa.

Schutz ha anche apprezzato le parole di Francesco nell’udienza generale di mercoledì 11 ottobre, quando ha riconosciuto – unica volta in quasi due mesi – che Israele “ha diritto a difendersi”.

Ma nei giorni successivi il papa, con le sue frequenti intemperanze verbali e con atti incauti, è di nuovo tornato a vanificare questi tentativi di rappacificazione. Suoi colloqui telefonici con esponenti del fronte avverso a Israele, dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan al presidente iraniano Ebrahim Raisi, hanno consentito a costoro di divulgare resoconti dei colloqui congeniali ai loro interessi, con accuse sfrenate al “regime sionista usurpatore”, accuse con cui il papa – a loro dire – si sarebbe detto d’accordo. Senza alcuna correzione o smentita da parte del Vaticano.

Una telefonata è intercorsa a fine ottobre anche tra il presidente israeliano Isaac Herzog e il papa. E anche qui – ha riferito al “Washington Post” un alto funzionario israeliano “a conoscenza del colloquio” – Francesco avrebbe bruscamente replicato a Herzog, che gli diceva dell’orrore della sua nazione per l’attacco di Hamas del 7 ottobre: “È vietato rispondere al terrore con il terrore”.

E poi c’è stato quel continuo insistere di Francesco, nei discorsi pubblici, sul mantra della guerra, di ogni guerra, che “è sempre una sconfitta per tutti”. Il 27 ottobre, dopo averlo sentito ribadire per l’ennesima volta questa tesi, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, in una lettera al quotidiano “la Repubblica”, ha obiettato al papa che sì, “certamente le guerre vanno evitate, ma quando è in gioco la propria esistenza davanti a un nemico irriducibile l’alternativa pacifista è discutibile anche moralmente. Difficile dire che la sconfitta del nazismo, ad esempio, sia stata una sconfitta per tutti. Qualche volta qualcuno deve essere sconfitto, solo lui e per sempre”.

Senza alcun risultato, visto come il papa, all’Angelus di due giorni dopo, è tornato a scandire: “La guerra è una sconfitta, sempre!”.

Come si vede, la protesta contro Francesco non proviene solo dal versante politico, ma anche da quello religioso, dal rabbinato, con espliciti allarmi per la rottura di quel fruttuoso dialogo ebraico-cristiano che ha avuto il suo punto d’avvio con la dichiarazione “Nostra aetate” del Concilio Vaticano II ed è maturato nei pontificati successivi.

Con Francesco, in effetti, questo dialogo è entrato in crisi. Un segnale è stato anche l’improvvisa sua decisione di liquidare con rapidi saluti, senza leggere il discorso predisposto per l’occasione, l’udienza accordata il 6 novembre a una delegazione della Conferenza dei rabbini d’Europa. Il papa l’ha motivata dicendo di “non stare bene in salute”. Ma quella stessa mattina ha ricevuto senza alcuna palese difficoltà cinque altre persone e gruppi, a uno dei quali ha letto un discorso, e nel primo pomeriggio ha preso parte attiva a un animato incontro con miriadi di bambini di 84 paesi del mondo.

Non è stata la prima volta, questa, in cui Francesco ha rifiutato di leggere il suo discorso, incontrando dei rabbini. C’è un precedente che risale al 9 maggio 2019 e che ha a che fare con l’abitudine dell’attuale papa di squalificare i suoi oppositori applicando loro l’epiteto di “farisei”, nel senso di ipocriti, avidi, legalisti, vanitosi.

In un colloquio che avevano avuto con Francesco, due rabbini italiani di primo piano, Riccardo di Segni e Giuseppe Laras, l’avevano pregato di cessare dall’usare il termine di “fariseo” in forma offensiva. E il cardinale Kurt Koch, il responsabile delle relazioni con l’ebraismo, aveva provveduto a rimediare preparando per il papa un discorso da leggere in un convegno internazionale alla Pontificia Università Gregoriana dedicato proprio al tema “Gesù e i farisei”.

Il discorso metteva in luce che nel Nuovo Testamento non vi sono soltanto gli scontri tra Gesù e i farisei. Vi si trovano anche gli elogi di due farisei come Gamaliele e Nicodemo. Gesù stesso dice che vi sono farisei “prossimi al regno dei cieli” per il primato che danno al comandamento dell’amore di Dio e del prossimo. C’è la fierezza con cui l’apostolo Paolo si descrive come fariseo. Tutto il contrario dello stereotipo negativo spesso utilizzato dal papa.

Ma incredibilmente Francesco rinunciò a leggere quel discorso e si limitò a salutare i presenti, sprecando un’occasione d’oro.

Un altro inciampo sul cammino del dialogo il papa lo provocò nel 2021 quando scelse come materia di un ciclo delle sue udienze pubbliche del mercoledì la lettera di Paolo ai Galati, proprio quella in cui è più forte l’opposizione di Paolo all’ebraismo.

Quando Francesco, nella catechesi dell’11 agosto con titolo “La legge di Mosé”, infarcendo il testo scritto di qualche frase improvvisata, arrivò a dire che “la legge non dona la vita”, provocò l’immediata protesta, da Gerusalemme, del gran rabbino Rasson Arussi e, dagli Stati Uniti, del rabbino David Fox Sandmel, presidente del Comitato ebraico internazionale per le consultazioni interreligiose, che rimproverarono al papa d’aver riesumato quella “dottrina del disprezzo” che “pensavamo la Chiesa avesse finalmente rigettato”.

Una ragionata e pacata replica scritta arrivò dal cardinale Koch. Ma prima ancora s’era messo di mezzo con un maldestro articolo su “L’Osservatore Romano” il teologo di fiducia di Jorge Mario Bergoglio, l’argentino Victor Manuel Fernández, oggi prefetto del dicastero per la dottrina della fede. E anche il papa in persona aveva cercato di rimediare, improvvisando a braccio in un’udienza successiva. Col risultato però di provocare entrambi una nuova protesta pubblica da parte del rabbino capo di Roma, contro il rilancio di “stereotipi ostili antiebraici”.

Non c’è pace, insomma, tra ebrei e cattolici, regnante Francesco.

E meno male che il papa non si è potuto recare a Dubai, dove domenica 3 dicembre era in programma un suo incontro con il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, il leader musulmano assieme al quale aveva firmato nel 2019, sempre negli Emirati Arabi Uniti, il documento “sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”.

Perché ecco come Al-Azhar ha commentato il 7 ottobre la strage degli innocenti compiuta da Hamas: esprimendo “le sue sentite condoglianze per i nostri martiri, i martiri della nazione islamica e araba, i martiri dell’orgogliosa Palestina, che hanno raggiunto il martirio per difendere la loro patria, la loro nazione e la loro causa, la nostra causa e la causa di tutte le persone che hanno dignità nel mondo: la causa palestinese. Al-Azhar prega Allah di concedere al popolo palestinese la fermezza di fronte alla tirannia sionista e al terrore. Al-Azhar saluta con estremo orgoglio gli sforzi di resistenza dell’orgoglioso popolo palestinese e chiede che il mondo civilizzato e la comunità internazionale esaminino in uno spirito di razionalità e saggezza l’occupazione sionista della Palestina, che è l’occupazione più prolungata nella storia moderna. Questa occupazione è una macchia sulla fronte dell’umanità e della comunità internazionale”.

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Sandro Magister è firma storica del settimanale L’Espresso.
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