Giovedì 16 maggio, due giorni dopo che Settimo Cielo aveva dato forte risalto alla straordinaria “lectio” da lui tenuta a Roma su ciò che la Chiesa può e deve fare nel vivo della guerra infinita tra Israele e i palestinesi, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, con l’autorizzazione di Israele e per un varco rimasto segreto si è recato di persona a Gaza, assieme al grande ospedaliere dell’Ordine di Malta, a portare aiuti e conforto alle poche centinaia di cristiani rimasti nella città (vedi foto). Gaza l’ha trovata a un grado di distruzione – ha detto – che aveva visto in precedenza solo nel 2014 ad Aleppo, in Siria.
E lo stesso 16 maggio, con coincidenza perfetta, il gesuita ebreo David Neuhaus, grande esperto del dialogo giudaico-cristiano, nell’articolo di apertura dell’ultimo quaderno de “La Civiltà Cattolica” ha indicato proprio nel patriarca Pizzaballa l’uomo di Chiesa che più di ogni altro potrebbe ristabilire un rapporto positivo tra i cristiani e i “nostri padri nella fede”, come Benedetto XVI amava chiamare gli ebrei, invece che “fratelli maggiori”.
“Pizzaballa parla ebraico, è da tempo impegnato nel dialogo ebraico-cristiano e dagli israeliani la sua nomina a patriarca è stata vista come un passo positivo”, fa notare Neuhaus fin dalla prima pagina del suo editoriale.
In effetti prima di lui “il patriarca di Gerusalemme era stato sempre un arabo”, con le conseguenti “tensioni con le autorità dello Stato d’Israele”. E invece papa Francesco – gli riconosce a merito Neuhaus – ha preso la decisione non solo di nominare patriarca un italiano amico di ebrei e attivo da anni in Terra Santa, ma anche di farlo cardinale, lo scorso 30 settembre, pochi giorni prima dell’eccidio compiuto il 7 ottobre da Hamas che ha dato inizio a quest’ultima tremenda fase della guerra.
Neuhaus prende atto che oggi il contrasto tra le autorità israeliane e il papa “si è accentuato e si è esteso a molti ebrei in tutto il mondo”. E in questo articolo su “La Civiltà Cattolica” vuole appunto “documentare questa crisi e analizzarla”.
Ma vuole anche individuare la via per risalire a un rapporto più positivo tra ebrei e cristiani.
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Per quanto riguarda l’attuale stato di crisi, a farlo precipitare sono stati soprattutto alcuni gesti e parole di papa Francesco.
Neuhaus cita in particolare il doppio incontro che il papa ha avuto il 22 novembre 2023 con familiari degli ostaggi israeliani a Gaza e con parenti di palestinesi uccise in quella città, accomunati in questo suo unico giudizio: “Questo non è guerreggiare, questo è terrorismo”. Con le autorità israeliane “indignate” per questo “indebito parallelismo”.
E poi ancora Neuhaus rimanda al giudizio espresso dal papa innumerevoli volte: ”La guerra è una sconfitta per tutti”. Un “costante ritornello” – scrive – che “ha suscitato la costernazione non solo delle autorità israeliane e delle personalità ebraiche di tutto il mondo, ma anche degli ucraini, nel contesto della guerra in corso con la Russia”.
La provenienza geografica dell’attuale pontefice non è estranea a questo inasprimento delle sue relazioni con Israele. Neuhaus nota che “Francesco porta con sé una coscienza plasmata nel contesto latinoamericano di lotta contro l’oppressione e di solidarietà con i poveri. Mentre il dialogo con gli ebrei occupava un posto di primo piano nel pensiero eurocentrico, papa Francesco ha iniziato ad allargare la prospettiva”, con una particolare insistenza su “il dialogo con l’islam, la povertà, la migrazione e la questione scottante dell’uguaglianza, della libertà e della giustizia per il popolo palestinese”.
L’analisi di Neuhaus sull’andamento dei rapporti tra l’attuale pontificato e Israele in questi ultimi mesi è molto ricca e documentata, ed esige di essere letta per intero. Tra le molte voci critiche di parte ebraica cita in particolare quella del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. E su di essa fa leva per introdurre la seconda parte del suo editoriale, con questo “incipit”:
“Le parole appassionate di Di Segni additano il cuore della crisi. Molti ebrei impegnati nel dialogo con la Chiesa insistono sul fatto che la loro fedeltà allo Stato di Israele è parte integrante della loro identità di ebrei. Ma che cosa ne pensa la Chiesa nel contesto del dialogo con il popolo ebraico che si è sviluppato a partire dal Concilio Vaticano II?”.
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Il “cuore della crisi” è identificato da Neuhaus proprio nel differente giudizio sull’identità dello Stato d’Israele.
A detta degli ebrei “l’evento più importante dal tempo dell’Olocausto è stato la restaurazione di uno Stato ebraico nella terra promessa, come luogo fisico del patto tra loro e Dio”, quindi “per ragioni ben più profonde di quelle politiche”.
“Tuttavia va ricordato – nota Neuhaus – che quella terra è anche la casa dei palestinesi. Oggi in Israele-Palestina ci sono sette milioni di ebrei israeliani e sette milioni di arabi palestinesi”.
Da qui la soluzione dei due Stati, che “faciliterebbe sicuramente le relazioni tra Israele e la comunità internazionale, inclusa la Santa Sede”.
Ma appunto, “si tratta di una questione politica e diplomatica da risolvere attraverso i canali appropriati”. E solo così la Chiesa cattolica l’ha sempre intesa, nei vari suoi documenti citati da Neuhaus, in particolare in questo del 1985 della commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo:
“I cristiani sono invitati a comprendere questo vincolo religioso ebraico alla terra d’Israele, che affonda le sue radici nella tradizione biblica, pur non dovendo far propria un’interpretazione religiosa particolare di tale relazione. Per quanto si riferisce all’esistenza dello Stato d’Israele e alle sue scelte politiche, esse vanno viste in un’ottica che non è di per sé religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto internazionale”. Ed è chiaro, aggiunge Neuhaus, che “la Chiesa aderisce fermamente a tale posizione” anche “nella devastante guerra in corso a Gaza”.
Ma neppure si può eludere il fatto che “il dialogo della Chiesa con il popolo ebraico non è né politico né diplomatico”.
Perché dev’essere molto di più e d’altro, avverte Neuhaus. Dev’essere “un profondo dialogo religioso-teologico-spirituale basato sulle radici comuni nelle Scritture di Israele e teso a condividere preoccupazioni e a lavorare insieme per riparare un mondo distrutto”.
La Chiesa cattolica deve vedere nel dialogo con il popolo ebraico “una questione essenziale per la propria identità. Ebrei e cattolici condividono gran parte della Sacra Scrittura. Gesù è totalmente incomprensibile senza il suo radicamento nel mondo ebraico e la Chiesa oggi cerca di onorare quel mondo ebraico. In effetti, essa è ben consapevole che molti ebrei legano la propria identità ebraica allo Stato di Israele, perché in esso vedono una garanzia per il loro benessere in un mondo che è stato spesso orribilmente crudele nei loro confronti. Alcuni di loro scorgono nello Stato una necessità connaturata al loro essere ebrei”.
Ma di nuovo, pur impegnata nel dialogo “ad ascoltare e ad apprendere”, la Chiesa sa che in “questa terra che gli ebrei chiamano ‘Terra d’Israele’, venerata anche da cristiani e musulmani, c’è un popolo privato dei propri diritti, quello palestinese”.
Da Paolo VI in poi, nota Neuhaus, tutti i papi non hanno mancato di “riconoscere esplicitamente i palestinesi come popolo, e non semplicemente come gruppo di rifugiati”. Alle loro visite in Israele hanno sempre associato quelle nei territori palestinesi, e ai luoghi sacri ebraici anche quelli musulmani e cristiani.
Ai giorni nostri, come gesto altamente ricco di significato Neuhaus richiama l’udienza privata data da papa Francesco, il 27 marzo 2023, al palestinese Bassam Aramin e all’israeliano Rami Elhanan, “entrambi padri in lutto e attivisti del Parents’ Circle, un gruppo israelo-palestinese di genitori che hanno perso i figli nel conflitto”.
Ma poi c’è anche stato, la scorsa vigilia di Pentecoste, durante la visita di Francesco a Verona, l’emozionante abbraccio pubblico tra il papa, l’israeliano Maoz Inon, che ha avuto i genitori uccisi da Hamas il 7 ottobre, e il palestinese Aziz Sarah, il cui fratello è morto sotto i colpi delle armate israeliane.
Come testimonianza di questo stesso atteggiamento, Neuhaus raccomanda di leggere la lettera pastorale indirizzata il 24 ottobre 2023 ai fedeli di Gerusalemme dal patriarca Pizzaballa.
E chiude l’editoriale non solo con l’auspicio di “un intimo dialogo di amicizia tra cristiani ed ebrei dopo secoli di allontanamento e di rifiuto”, ma anche con questo interrogativo carico di speranza:
“Non potrebbero a loro volta israeliani e palestinesi sperare in un orizzonte simile, nella fine delle ostilità e nella costruzione di un futuro condiviso in una terra chiamata a essere santa, in Israele-Palestina?”.
Un interrogativo dal quale traspare ancora una volta quel sogno di un unico Stato per ebrei e arabi “in un’uguaglianza finalmente riconciliata” che Neuhaus ha già più volte prospettato su “La Civiltà Cattolica”, al posto di quella soluzione dei due Stati che rischia sempre di implicare una pericolosa forzatura etnico-religiosa delle identità di entrambi.
Quanto al patriarca Pizzaballa, il suo nome è sempre più presente sui taccuini dei cardinali, in vista di un futuro conclave.
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A riprova della difficoltà del dialogo, va comunque segnalato che pochi giorni prima del suo articolo su “La Civiltà Cattolica” padre David Neuhaus aveva firmato su “L’Osservatore Romano” del 7 maggio un altro suo articolo dal titolo “Antisemitismo e Palestina” che ha raccolto forti critiche da parte dell’ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede, Raphael Schutz, con una replica scritta che il quotidiano vaticano ha rifiutato di pubblicare ma di cui ha ampiamente riferito John L. Allen Jr. su “Crux” del 19 maggio.
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Sandro Magister è firma storica del settimanale L’Espresso.
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