Quando la terra non è più santa. Il ruolo marginale della religione nel conflitto israelo-palestinese

Quanto pesa la religione nel conflitto israelo-palestinese? A prima vista tanto, tantissimo.

Già il nome di Hamas è eloquente. È un  acronimo arabo che sta per Movimento di Resistenza Islamica. Ma soprattutto la sua carta fondativa del 1988 – leggibile anche in inglese – è tutta un rimando al Corano e alla “sunnah”, è una legittimazione su base religiosa tanto della lotta armata contro Israele quanto del rigetto di qualsiasi soluzione negoziale, nell’orizzonte di un conflitto esistenziale tra ebrei e musulmani destinato a durare sino alla fine dei tempi, sulla scia di Corano 5,64.

Poi c’è la giurisprudenza musulmana, che definisce la Palestina quale “waqf”, ossia donazione ereditaria esclusiva e inalienabile, a beneficio della sola comunità dei credenti nell’islam.

Poi ancora c’è la dichiarazione emessa dall’Università sunnita di Al-Azhar poche ore dopo l’eccidio di inaudita ferocia compiuto da Hamas il 7 ottobre (vedi foto) nelle case, nei villaggi, nei luoghi di festa ebraici attorno a Gaza, con più di 1200 vittime inermi, neonati sgozzati, fanciulle violentate, mutilate, uccise, e il rapimento di oltre 240 ostaggi di tutte le età. Una dichiarazione senza una sola parola per le vittime innocenti, di pura invocazione a Dio a conforto del “martirio” degli aggressori, sottoscritta per primo da colui che di Al-Azhar è il Grande Imam, Ahmad Al-Tayyeb, il leader musulmano che firmò nel 2018, con papa Francesco, il documento “sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”.

E in più c’è il nome che Hamas ha dato all’eccidio del 7 ottobre: “Tifone di Al-Aqsa”, dal nome della moschea di Gerusalemme ove il profeta Muhammad fu trasportato nel viaggio notturno che precedette la sua ascensione al cielo, raccontata in Corano 17.

Ma anche sull’altro versante, quello d’Israele, la spianata di Al-Aqsa ha un posto centrale, col nome di “monte del tempio”, nelle rivendicazioni della corrente sionista religiosa. Specie dopo la sua riconquista bellica nel 1967, il controllo della spianata è per tale corrente il cuore della sovranità dello Stato ebraico sull’intera biblica “Eretz Yisra’el”, terra d’Israele.

Per non dire di quei gruppi ebraici che progettano la ricostruzione del terzo tempio al posto della moschea di Al-Aqsa. Del tutto marginali fino a una decina di anni fa, questi gruppi oltranzisti hanno oggi un peso notevole nella coalizione che sorregge il governo di Benyamin Netanyahu. Il 4 ottobre, tre giorni prima dell’eccidio compiuto da Hamas, migliaia di coloni oltranzisti erano penetrati per alcune ore nel recinto della moschea.

Ma è stato lo stesso Netanyahu, il 28 ottobre, nel pieno del contrattacco a Gaza, a giustificare la durissima reazione israeliana all’eccidio di Hamas richiamandosi alle campagne militari dell’antico Israele contro il popolo di Amalek, palestinese “ante litteram”, che si conclusero con lo sterminio di questo popolo per ordine di Dio, stando a diversi passi biblici tra i quali Deuteronomio 25,19: “Quando dunque il Signore, tuo Dio, ti avrà assicurato tranquillità, liberandoti da tutti i tuoi nemici all’intorno nella terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti in eredità, cancellerai la memoria di Amalek sotto il cielo. Non dimenticare!”.

Non sorprende che a queste dichiarazioni di Netanyahu alcuni ebrei nordamericani abbiano reagito giudicandole “incredibilmente pericolose e irresponsabili”, col loro appoggiarsi ad alcuni passi della Bibbia non nel senso metaforico con cui li hanno interpretati nei secoli quasi tutte le esegesi rabbiniche, ma in senso letterale, assecondando le odierne correnti ultranazionaliste.

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Tornando dunque alla domanda iniziale, ecco come la riformula il professor Francesco Mazzucotelli, docente di storia e cultura del Medio Oriente all’Università di Pavia, in un suo saggio col titolo “Quando la terra non è più santa” sul numero di novembre de “La Rivista del Clero Italiano”, diretta da Giuliano Zanchi ed edita dall’Università Cattolica di Milano:

“Si può dunque asserire che il conflitto Israele-palestinese sia un conflitto religioso, o comunque in cui la dimensione religiosa sia preponderante?”.

Al che risponde: “La risposta, a mio avviso, è nel complesso no”. Questo perché negli ultimi venticinque anni “la letteratura scientifica in ambito storico, politologico e antropologico” ha messo in evidenza “i limiti di una vulgata mediatica e di un approccio alla storia politica del Medio Oriente che vede nella religione la causa principale dei conflitti regionali e attribuisce un’aura di eccezionalismo a tutta l’area, ai suoi abitanti e ai suoi processi di identificazione collettiva, dipinti come immutabilmente determinati da odi atavici e pertanto insolubili”.

L’utilizzo di narrazioni e simboli di tipo religioso andrebbe invece interpretato – scrive – “come strumento di legittimazione e persuasione politica”, entro un conflitto israelo-palestinese che “è nella sostanza un conflitto territoriale e politico tra due progetti concorrenti di Stato nazionale che rivendicano il controllo dello stesso territorio”, con l’appartenenza religiosa divenuta “un marcatore” delle rispettive identità nazionali.

Nelle pagine successive del saggio, il professor Mazzucotelli tratteggia appunto le identità delle parti in conflitto.

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Quanto all’identità ebraica, “esiste dagli albori del movimento sionista un’irrisolta tensione sul significato stesso di ebraismo: se cioè si debba riferire all’appartenenza religiosa oppure all’identità nazionale”.

Un’analoga tensione si è ripresentata nella fase nascente dell’attuale Stato d’Israele, nell’irrisolto “contrasto ideologico personificato dalle figure di David Ben Gurion, considerato il principale fondatore dello Stato, dal rabbino ‘haredi’, ultraortodosso, Avrohom Yeshaya Karelitz, e dal rabbino Avraham Yitzhak Cook, considerato uno dei padri fondatori dell’odierno sionismo religioso”.

Da un lato c’era chi interpretava la riunione delle diaspore disperse “come la fine di un esilio terreno”, e dall’altro chi la vedeva “parte di un piano divino di riscatto e redenzione”.

Con la guerra dei sei giorni, nel 1967, e con l’occupazione della città vecchia di Gerrusalemme e della Cisgiordania – scrive Mazzucotelli – “emergono due ulteriori correnti”.

Da una parte c’è “il sionismo religioso nazionale, da non confondere con gli ‘haredim’, i cosiddetti ebrei ultraortodossi, che legge la vittoria militare israeliana e la stessa esperienza sionista in una prospettiva redentiva e messianica”.

Dall’altro lato “si consolida dopo il 1977, a partire dalle idee di Ze’ev Jabotinsky, anche la corrente del sionismo neorevisionista, nella quale dominano gli elementi etnico-religiosi e di espansione territoriale”.

Il partito di Netanyahu, il Likud, col suo sostegno alla colonizzazione della Cisgiordania, è ispirato tanto dalla corrente del sionismo religioso quanto da quella neorevisionista. Ad accomunare entrambe le correnti è “l’idea che lo Stato d’Israele non possa alienare, cedere o trovare un compromesso su alcuna parte della totalità della ‘terra d’Israele’, sulla cui precisa estensione non è tuttavia dato avere indicazioni attendibili”.

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Quanto all’identità palestinese, il professor Mazzucotelli fa anzitutto notare che “i nuovi soggetti politici palestinesi che nascono a partire dalla fine degli anni Cinquanta si collocano nella prospettiva del nazionalismo panarabo e, dopo il 1967, in quella di un marxismo rivoluzionario che abbraccia la questione nazionale in parallelo alla questione di classe”.

È soltanto all’inizio degli anni Ottanta che “le identità politiche del nazionalismo cosiddetto laico vengono sempre più contestate dalle narrazioni collettive e dalle pratiche dell’islam politico”.

Questo avviene in diverse aree del mondo arabo, ma si adatta rapidamente “anche al contesto palestinese, segnato dal perdurare dell’occupazione militare, dalla precarietà e poi dal fallimento del processo negoziale, nel quale la classe dirigente di area nazionalista viene tacciata di inconcludenza”.

La penetrazione e il rafforzamento di Hamas dentro Gaza va analizzata in questo contesto. E “sono tre – scrive Mazzucotelli – i punti fondamentali che emergono dalla letteratura scientifica, fondata sull’approccio critico, l’uso delle fonti primarie e l’osservazione sul campo”.

Il primo è che a Gaza “il movimento islamico radicale palestinese ha una strategia di radicamento sociale che va al di là della sua ala armata”.

Il secondo è che “questa penetrazione non è tuttavia totalizzante, e che quindi la società di Gaza nel suo complesso non corrisponde al movimento che pure vi è politicamente egemone”.

Il terzo è che Hamas “si è legittimato e continua a farlo come movimento di liberazione nazionale che ha come obiettivo la fondazione di uno Stato palestinese indipendente”.

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Tirando le somme, a giudizio di Mazzucotelli, “non è dunque di religione in termini astratti che si dovrebbe parlare tanto nel contesto israeliano quanto nel contesto palestinese, bensì delle modalità in cui due differenti repertori religiosi (ebraico e islamico) si intersecano con l’idea di nazione e il progetto di costruzione dello Stato nazionale territoriale”.

Il professore non conclude però qui il suo saggio, ma dedica le ultime pagine a tratteggiare ciò che avviene anche all’interno del cristianesimo, riguardo al conflitto israelo-palestinese.

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“Accanto al messianismo – scrive – che si ispira a Isaia 8,18 e Daniele 9,26 per vagheggiare la costruzione del terzo tempio di Gerusalemme al posto dell’attuale spianata della moschea di Al-Aqsa, esiste tutto un ampio settore di fondamentalismo evangelico apocalittico che gioca un ruolo molto determinante nella politica estera degli Stati Uniti d’America e nella loro relazione privilegiata con Israele”.

È questa la corrente del cosiddetto “sionismo cristiano”, sorto nell’Ottocento nell’ambito anglicano, ma cresciuto negli ultimi quarant’anni all’interno delle Chiese evangeliche e battiste degli Stati Uniti. Dai sionisti cristiani “la fondazione dello Stato d’Israele e il conflitto israelo-palestinese vengono letti in una prospettiva teologica ed escatologica, come segni che preludono alla ormai prossima fine dei tempi”. E “non si tratta affatto di gruppi isolati e marginali. Associazioni come ‘Christians United for Israel’ contano dieci milioni di aderenti, con una crescente capacità d’influenza sul Congresso”.

Dall’altro lato, “esiste anche un’esegesi biblica che fonda una teologia postcoloniale della liberazione”, a sostegno di un popolo palestinese “libero dalle catene della schiavitù e dell’oppressione”.

In ambito cattolico gli spunti più significativi sono invece in direzione del dialogo interreligioso e dell’uguaglianza dei diritti per tutti, una scelta che denota coraggio e lungimiranza in un contesto “di evidente egemonizzazione della sfera pubblica da parte degli attori più oltranzisti”.

Il professor Mazzucotelli cita in particolare due documenti: la dichiarazione “Kairos Palestina” del 2009, nata in una prospettiva ecumenica nell’ambito delle Chiese cristiane della regione, e l’esortazione apostolica postsinodale del 2012 di papa Benedetto XVI “Ecclesia in Medio Oriente”.

In un Medio Oriente dilaniato da fondamentalismi che rivendicano un’origine religiosa, l’esortazione, al punto 29, invoca una “sana laicità” che sappia finalmente “liberare la religione dal peso della politica e arricchire la politica con gli apporti della religione, mantenendo la necessaria distanza, la chiara distinzione e l’indispensabile collaborazione tra le due”, con a fondamento “la natura dell’uomo” e “il pieno rispetto dei suoi diritti inalienabili”, per tutti.

Ripensare la ripartizione della Palestina?”: così “La Civiltà Cattolica” titolava un suo articolo del 17 novembre 2022, firmato dal gesuita ebreo e israeliano David M. Neuhaus e pubblicato con il “visto si stampi” delle autorità vaticane.

In esso si auspicava che al posto della ripartizione in due Stati, “ogni giorno più dubbia”, possa giungere l’ora di “un’uguaglianza di israeliani e palestinesi” in un unico Stato, già esplicitamente invocata nel maggio del 2019 da una dichiarazione dei vescovi cattolici della regione e da loro giudicata “la condizione fondamentale per una pace giusta e duratura”.

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Sandro Magister è firma storica del settimanale L’Espresso.
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