Essere ebrei non è mai stata un’avventura pacifica, e nemmeno oggi lo è. L’eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023 ha mostrato che gli ebrei, semplicemente perché tali, non sono al riparo da pogrom nemmeno dentro i confini dello Stato d’Israele. Nè il massiccio contrattacco a Gaza ne ha fin qui rovesciato le sorti, anzi, ha ancor più accresciuto in tutto il mondo l’isolamento di Israele e l’avversione agli ebrei.
Arriva dunque puntuale il saggio, edito in Italia dal Mulino, “Essere ebrei, oggi. Continuità e trasformazioni di un’identità”, del grande demografo israeliano Sergio Della Pergola, professore emerito all’Università Ebraica di Gerusalemme.
Oggi gli ebrei nel mondo sono 15,7 milioni, risaliti a poco meno di quanti erano alla vigilia della seconda guerra mondiale e della Shoah. Nel corso di una storia millenaria, che Della Pergola riassume in poche pagine affascinanti, gli ebrei hanno più volte mutato le loro collocazioni geografiche, hanno alternato declini e riprese numeriche, nei contesti più vari, felici e molto più spesso avversi. Nella prima metà del Novecento erano concentrati per lo più nell’Europa orientale, mentre oggi sono all’85 per cento in Israele e negli Stati Uniti.
Saggiamente Della Pergola avverte che la “longue durée” storica va incorporata nell’analisi della situazione odierna. In passato l’ebreo era identificato come tale per un insieme fatto di religione, etnia, lingua, luogo di residenza, occupazione e altro ancora. Era nettamente distinguibile dai non ebrei, un po’ come l’ebreo dipinto da Chagall. Oggi l’identificazione è molto più varia e complessa. E può essere studiata sotto tre angolature complementari.
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La prima riguarda che cosa gli stessi ebrei pensano che sia l’ebraismo. I possibili marcatori dell’identità ebraica tendono a separarsi. C’è chi si definisce ebreo per religione ma non per etnia, o viceversa ebreo per etnia ma non per religione. Tra religione, discendenza familiare e cultura c’è chi si associa all’una invece che all’altra. In più dal 1948 c’è lo Stato d’Israele come ulteriore polo di identificazione. Della Pergola richiama i dati delle maggiori ricerche in proposito, in Israele, Stati Uniti ed Europa. E così li riassume:
“In tutto il mondo ebraico le definizioni basate sia sulla religione, sia sulla discendenza sono menzionate da una maggioranza della popolazione ebraica, ma è la seconda che ottiene un’aliquota di preferenze chiaramente più alta. Il profilo emergente è quello di un’identità ebraica contemporanea in cui la religione gioca un ruolo importante ma non predominante. Questo è vero in particolare in Israele, che talvolta viene designato criticamente come società teocratica. I dati riportati smentiscono categoricamente questa affermazione”.
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La seconda angolatura di ricerca è sui perché, sulle motivazioni per cui un ebreo si identifica come tale. Ad esempio “mantenere viva la memoria delle Shoah”, oppure “credere in Dio”, o ancora “essere membro di una comunità”.
In generale, sia in Israele che negli Stati Uniti e in Europa, la memoria della Shoah e l’appartenenza al popolo ebraico sono menzionati con maggiore frequenza rispetto al sostegno ad Israele, alla credenza in Dio e all’osservanza della legge ebraica.
Se però si analizzano i dati con metodi più raffinati, che Della Pergola illustra, si scopre che in Israele il fattore centrale è la “solidarietà al popolo ebraico”, mentre negli Stati Uniti tale fattore consensuale sembra mancare. In altre parole, non sembra animare l’ebraismo americano la categoria di “peoplehood”, che invece un po’ si registra presente in Europa, dove molti ebrei si sentono spinti dal crescente antisemitismo a farsi più solidali col popolo ebraico nel suo insieme.
Un altro terreno di ricerca interessante è esplorare come le identità ebraiche interagiscono con le idee politiche, ad esempio nel conflitto arabo-israeliano.
Tra i i giovani ebrei israeliani sono in aumento coloro che ritengono che il proprio governo faccia adeguati sforzi per promuovere la pace, mentre sono in diminuzione quanti pensano che altrettanto facciano i palestinesi.
Ben diverso è invece il quadro negli Stati Uniti. Tra i giovani ebrei americani coloro che credono alla buona fede di Israele sono appena un 10 per cento più numerosi di quelli che credono alla buona fede dei palestinesi. E la tendenza è di un ulteriore restringimento di questo margine.
Secondo Della Pergola ciò dipende anche dall’attrazione che la critica radicale anti-israeliana esercita sui giovani ebrei in un contesto come quello degli Stati Uniti. Da cui questo avvertimento:
“I dati ora descritti prefigurano percorsi di allontanamento tra gli ebrei israeliani e americani che possono avere conseguenze strategiche sul futuro delle relazioni fra le diverse comunità ebraiche”.
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La terza angolatura è su come gli ebrei esprimono la loro identificazione con l’ebraismo, con quale tipo di vita: come “haredi”, cioè “timorati di Dio”, oppure ortodossi, tradizionali conservatori, riformati progressisti, non religiosi, antireligiosi.
Il peso di ciascuna categoria risulta abbastanza invariato nel tempo, con i secolari, i non religiosi, come gruppo più numeroso, con un terzo e anche più del totale. Ma se si guarda alle variazioni che in ciascun ebreo intervengono col variare dell’età si scoprono evoluzioni notevolmente diverse da luogo a luogo.
In Europa, scrive Della Pergola, “ogni generazione è nata inizialmente più religiosa rispetto a quella immediatamente più anziana, e nel corso della vita ogni generazione è anche diventata più religiosa di quanto non lo fosse durante l’infanzia”.
Negli Stati Uniti è l’opposto: “ogni generazione era inizialmente meno religiosa rispetto a quella immediatamente più anziana e nel corso della vita ogni generazione è diventata meno religiosa di quanto non lo fosse durante l’infanzia”.
E in Israele? Lì “ogni generazione risultava più religiosa rispetto a quella immediatamente più anziana, ma nel corso della vita ogni generazione diventava meno religiosa di quanto non lo fosse durante l’infanzia”. Con un’eccezione: la generazione nata negli anni delle guerre dei Sei Giorni e del Kippur, “la cui religiosità è aumentata nel corso degli anni”.
Ci sono inoltre i comportamenti rituali a manifestare come ciascuno esprime il suo essere ebreo. Con in testa, sia in Israele che negli Stati Uniti e in Europa, la partecipazione alla cena pasquale, seguita dal digiuno di “Yom Kippur”, dall’accensione delle candele all’inizio di ogni “Shabbàt”, dal consumo a casa di cibi “kashèr”, dalla frequenza settimanale a una sinagoga. Con un’osservanza numericamente amplissima, fino a sfiorare in Israele la totalità, per la cena pasquale, partecipata anche da molti che pur si dicono non religiosi.
Anche qui con “un processo costante di intensificazione delle credenze e delle pratiche tradizionali ebraiche quando si passa dalle generazioni più anziane a quelle più giovani”. Un processo che Della Pergola non esita a definire di “desecolarizzazione”, all’inverso di ciò che sembra accadere universalmente per tante religioni diverse dall’ebraica.
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In questo suo libro, Della Pergola dedica un capitolo di grande interesse all’antisemitismo, o meglio, all’antiebraismo, percepito dagli ebrei in forte crescita, specie dopo l’eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre che ha confermato la persistenza di chi ha come obiettivo finale l’annientamento di Israele.
Un altro capitolo Della Pergola l’ha dedicato al caso specifico del “piccolo ma vivace ebraismo italiano”, tra l’altro citando i risultati dell’indagine dell’Istituto Cattaneo di Bologna in alcune università dell’Italia del Nord – di cui ha dato conto a suo tempo Settimo Cielo – con un’impressionante crescita tra gli studenti dell’avversione contro Israele anche dopo il 7 ottobre e prima del contrattacco a Gaza.
Ma qui basti richiamare alcune considerazioni finali che Della Pergola trae dalle ricerche sull’essere ebrei oggi.
Da un lato c’è “l’emergere dello Stato di Israele come punto focale, seppure non consensuale, dell’identificazione ebraica collettiva”, transnazionale.
Dall’altro lato, però, “la dialettica fra la maggioranza ebraica nello Stato d’Israele e le minoranze ebraiche in tutti gli altri paesi, ma primariamente negli Stati Uniti, procede negli ultimi anni attraverso non poche contraddizioni”.
In particolare c’è l’influenza “a volte distruttiva che il perenne conflitto palestinese-israeliano, e in certa non trascurabile misura islamico-ebraico, esercita sull’intera compagine ebraica mondiale”. Questo anche perché, in giorni di guerra, “non è possibile negare che esiste un enorme iato fra l’esperienza ebraica vissuta in Israele e quella delle comunità ebree della diaspora”.
Da qui la considerazione che “la capacità che dimostrerà Israele di volere e di potere trovare soluzioni stabili al conflitto avrà un’influenza forse decisiva sul destino futuro non solo dello Stato ebraico, ma di tutto l’ebraismo mondiale”.
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Informazioni più dettagliate sull’ebraismo in Europa, con un paio di grafici illustrativi, sono a disposizione in questo post di Settimo Cielo del 17 febbraio 2022, che dà conto di un precedente saggio del professor Sergio Della Pergola:
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Sandro Magister è firma storica del settimanale L’Espresso.
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