Un unico Stato per ebrei e arabi. Lo vogliono le “periferie” del popolo d’Israele

Due popoli, due Stati. È questo il futuro di Israele e della Palestina evocato praticamente da tutti, compresa la Santa Sede nelle sue voci ufficiali, dalla segreteria di Stato al papa.

Ma in questa formula pochi credono per davvero, anche ai vertici della Chiesa. Già a metà novembre del 2022 “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il previo controllo delle massime autorità vaticane, aveva titolato un suo articolo: “Ripensare la ripartizione della Palestina?”, e auspicava che al posto della divisione in due Stati, “ogni giorno più dubbia”, possa giungere l’ora di “un’uguaglianza di israeliani e palestinesi” in un unico Stato.

E oggi che la guerra generata dalla catastrofe del 7 ottobre vede ancor più svanire sia l’ideologia sionista, sia quegli “accordi di Abramo” con gli Stati arabi che in realtà comportavano l’oscuramento della irrisolta questione palestinese, “La Civiltà Cattolica” torna a rilanciare “nuovi orizzonti e una nuova visione” sul futuro di Israele.

Israele, dove vai?” è il titolo dell’articolo che apre l’ultimo numero della rivista. E la risposta è che per trovare la strada giusta occorre guardare a “quattro importanti periferie” della società israeliana, che già “combattono perché i propri punti di vista e obiettivi trovino accoglienza nel dibattito pubblico”.

Quella di “periferia” è una parola cara a papa Francesco. Ma qui non ha niente di retorico o di populista. L’autore dell’articolo non scrive mai nulla che non sia nitidamente documentato. È David Neuhaus, nato a Johannesburg da una famiglia ebrea emigrata dalla Germania in Sudafrica negli anni Trenta, convertito grazie all’incontro con monaci russi, battezzato a vent’anni nella Chiesa cattolica, divenuto gesuita, con attività prima negli Stati Uniti e poi in Egitto, ma sempre rimasto ebreo e cittadino d’Israele, vicario del patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici israeliani di lingua ebraica dal 2009 al 2017 e professore all’Istituto Biblico di Gerusalemme, oltre che corrispondente da Israele per “La Civiltà Cattolica”.

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In questo suo ultimo articolo, Neuhaus anzitutto tratteggia la crisi in cui Israele oggi si trova, la “peggiore crisi dalla sua fondazione”, scoppiata al culmine della radicalizzazione dello scontro “tra ebraismo e democrazia”, ovvero “tra due diverse visioni dello Stato: da una parte uno Stato ebraico, concepito come una patria per tutti gli ebrei del mondo; dall’altra uno Stato democratico, concepito come il Paese di tutti i suoi cittadini, ebrei e non ebrei, prevalentemente arabi”. Uno scontro in cui, prima del 7 ottobre, “la minaccia palestinese sembrava appartenere al passato”.

Il 7 ottobre non solo ha tragicamente smentito quest’ultima illusione, ma ha fatto sorgere “la tremenda domanda se lo Stato di Israele sia per davvero quel rifugio sicuro che appariva agli ebrei in fuga dalla violenza in un mondo dov’erano stati una minoranza emarginata e spesso perseguitata”.

Ma chi ha condotto a questo stato di crisi? Neuhaus risponde che “i protagonisti principali provengono tuttora dalle élite sioniste ashkenazite che hanno dominato la storia di Israele dal 1948”.

“Il termine ‘ashkenazita’ – spiega – deriva dalla parola ebraica medievale che significa ‘Germania’ e si riferisce agli ebrei originari dell’Europa centrale e orientale, dove il moderno sionismo politico si sviluppò alla fine del XIX secolo”.

E oggi sia i membri del gabinetto di guerra di Benjamin Netanyahu, sia i principali generali dell’esercito israeliano, sia i capi dell’opposizione, come pure la stragrande maggioranza dei giudici della corte suprema, “provengono tutti dalle élite ashkenazite” e “condividono lo stesso mondo concettuale, incentrato su uno Stato ebraico per un popolo ebraico”.

Ma la società israeliana è anche altro, fa notare Neuhaus. È fatta anche di “vaste periferie che costituiscono una parte consistente della popolazione”. Ed è da esse che potrebbe emergere “una creatività oggi così necessaria per soccorrere Israele nel formulare risposte alle domande esistenziali interne ed esterne”.

Sono quattro le “importanti periferie” individuate da Neuhaus, che così le descrive:

EBREI ORIENTALI

Sono i “mizrahim”, gli ebrei fuggiti dai paesi arabi, dall’Iran, dalla Turchia, dall’Asia centrale dopo il 1948, per l’ostilità dell’intero mondo musulmano al neonato Stato d’Israele.

“Spesso vengono visti come sostenitori della destra e visceralmente antiarabi. Ma l’ostilità di molti mizrahim nei confronti del sionismo socialista non è riconducibile a un rifiuto della democrazia, bensì è stata forgiata nelle esperienze di discriminazione subite per mano dell’élite socialista ashkenazita. Negli ultimi quattro decenni è fiorita una rinascita culturale, tramite la quale questi ebrei rivendicano la propria identità e tradizione. Gli intellettuali emersi da questo ambiente hanno parlato di un’affinità culturale tra loro e il mondo arabo circostante: un’affinità che potrebbe suggerire la possibilità di una convivenza, aprendo un orizzonte che ha radici in un mondo comune e nella condivisione di una geografia e di un linguaggio che sembrano perduti nelle sabbie del tempo”.

“Tra gli esempi più consistenti di tale rivendicazione – prosegue Neuhaus –, c’è l’ascesa del movimento sociopolitico orientale, ultraortodosso, noto come Shas. Il più importante esponente dello Shas nel governo attuale, il ministro degli interni Moshe Arbel, ha condannato fermamente le azioni e i sentimenti antiarabi e ha insistito sul fatto che il governo debba promuovere lo Stato di diritto. L’obiettivo prioritario di questa popolazione eterogenea non è la riforma della giustizia, né la guerra contro i palestinesi, ma piuttosto la fine della persistente discriminazione e denigrazione culturale”.

EBREI ULTRAORTODOSSI

Sono i “haredim”, costituiscono il 13,5 per cento della popolazione ebraica, un terzo dei quali “mizrahim”, e “sono caratterizzati da una marcata diffidenza nei confronti della modernità, del secolarismo in generale, e del sionismo in particolare”.

Nel 1948, in cambio della loro non opposizione alla fondazione dello Stato di Israele, ottennero la cessione all’autorità religiosa del controllo giuridico di nascita, matrimonio e sepoltura, il rispetto del calendario ebraico, in particolare del sabato come giorno di riposo, e la rinuncia a scrivere una costituzione del nuovo Stato, “perché la costituzione del popolo ebraico è la Torah”. Dopo di che “entrarono nelle coalizioni con i governi socialisti e proseguirono questa consuetudine con i sionisti revisionisti”.

Gli ultraortodossi “tendono a nutrire sospetti nei confronti delle élite dominanti, di sinistra o di destra, in particolare quando queste danno per scontato l’atteggiamento occidentale e laico sulle questioni sociali”. E ciò li accomuna a molti gruppi musulmani tradizionali in Medio Oriente, anch’essi “preoccupati dalla spinta per l’uguaglianza di genere (in particolare quando viene violata la pratica religiosa della separazione dei sessi nello spazio pubblico), dai diritti LGBT e dalle restrizioni imposte alle tradizioni religiose nella vita del Paese”.

Loro “obiettivo principale”, infatti, è “preservare la vita ebraica tradizionale, garantendo i finanziamenti per le loro consistenti istituzioni (scuole, accademie di apprendimento della Torah e assistenza sociale), piuttosto che caldeggiare le riforme giuridiche e promuovere l’etnocentrismo ebraico”.

Di conseguenza, « una questione particolarmente delicata per gli ebrei ultraortodossi è la coscrizione universale, perché nel servizio militare essi scorgono un processo di secolarizzazione e di sottrazione dei loro giovani al ciclo di studio della Torah, che caratterizza la loro comunità ».

CITTADINI ARABI D’ISRAELE

Sono musulmani, cristiani, drusi e costituiscono oggi circa il 20 per cento della popolazione. Sono i discendenti dei non ebrei che rimasero entro i confini del nuovo Stato d’Israele dopo la fondazione nel 1948.

Formalmente “hanno diritti politici come tutti i cittadini israeliani”, ma di fatto sono “esclusi da gran parte delle istanze decisionali”. Si battono per l’uguaglianza nel mondo del lavoro, nell’istruzione, nella sanità, nei servizi pubblici, ma anche contro – scrive Neuhaus – “il razzismo endemico derivante dall’etnocentrismo ebraico”, perché “molti li identificano con il nemico piuttosto che vederli come cittadini con uguali diritti”.

Ciò su cui i cittadini arabi sono più sensibili sono “le severe limitazioni imposte alla democrazia sin dalla fondazione di Israele, che si manifestano in uno Stato che non si concepisce come lo Stato di tutti i suoi cittadini, ma piuttosto come lo Stato solo dei suoi cittadini ebrei”.

Inoltre, “mentre gli ebrei israeliani per lo più ignorano i fattori che hanno motivato l’attacco del 7 ottobre, la maggior parte dei cittadini arabi di Israele prova sentimenti di amicizia verso i compatrioti palestinesi che vivono sotto occupazione”.

NUOVI MIGRANTI DALL’EX UNIONE SOVIETICA

Compongono questa quarta “periferia” gli ebrei immigrati in Israele da Russia, Ucraina e Bielorussia, dopo il crollo del regime comunista. Sono circa un milione, il 10 per cento della popolazione. Al loro arrivo “erano considerati come persone istruite, di alta cultura e grandi lavoratori, oltre a costituire un potenziale contraltare sia degli ebrei orientali sia di quelli ultraortodossi, utile quindi a preservare l’egemonia ashkenazita e laica”.

“Ma ben presto – fa notare Neuhaus – divenne evidente che parecchi di loro non vivevano l’ebraismo nel senso tradizionale del termine. Dopo decenni di dominio comunista che aveva svilito l’identità etnica e religiosa, molti avevano un’idea assai indebolita dell’essere ebrei. Tanti si erano assimilati e si erano sposati, il che significava che molti di loro non erano ebrei secondo la legge religiosa. Inoltre, decine di migliaia di persone erano arrivate in Israele avendo solo una discendenza ebraica remota o inesistente”.

Di conseguenza,”dalla fine degli anni Novanta, nella pubblicazione annuale delle statistiche sulla popolazione è stata introdotta una nuova categoria, gli ‘altri’, cioè coloro che sono ‘non arabi non ebrei’ o ‘ebrei non ebrei’. Si tratta di persone senza appartenenza etnico-religiosa oppure cristiane, che costituiscono circa il 5 per cento della popolazione israeliana. Oggi esse costituiscono l’ennesima sfida allo Stato e al suo carattere”.

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Non è la prima volta che Neuhaus mette in luce i tratti originali di queste componenti della società israeliana. Lo scorso 6 maggio ha pubblicato, sempre su “La Civiltà Cattolica”, un articolo molto più ampio e documentato sulla prima delle quattro periferie qui tratteggiate, sul suo passato e sul suo presente, dal titolo: “Gli ebrei di cultura araba”, che può essere letto per intero nel sito della rivista, oppure in sintesi su Settimo Cielo.

E la conclusione anche allora era la stessa:

“Ricordare gli ebrei del mondo arabo e la loro storia ridefinisce in modi dimenticati le parole ‘ebreo’ e ‘arabo’, aprendo nuovi orizzonti verso un futuro non soffocato dalle attuali realtà di conflitto e di spoliazione”.

C’è stato un tempo, infatti, in cui tanti ebrei erano “parte integrante del mondo arabo” e “un ebreo poteva anche essere un arabo”. E questo “offre la prospettiva di un futuro in cui gli ebrei potrebbero vivere accanto agli arabi in una pace giusta e in un’uguaglianza riconciliata”.

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POST SCRIPTUM – Nella sua ultima indagine, l’Israel Democracy Institute ha rilevato che tra i cittadini arabi d’Israele l’apprezzamento per Tsahal, l’esercito, è cresciuto dal 18 per cento, a metà 2023, al 44 per cento, dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre e l’inizio della guerra a Gaza. E sono cresciuti anche gli apprezzamenti alla Knesset, il parlamento, dal 18 al 28 per cento, e alla Corte suprema, dal 26 al 53 per cento.

Viceversa, per la maggioranza ebraica, il gradimento per il governo di Benjamin Netanyahu, già basso prima del 7 ottobre, è calato ulteriormente dal 28 al 23 per cento. E il consenso per la Knesset dal 24 al 19 per cento.

Per i cittadini ebrei si è comunque rafforzato il senso di appartenenza alla nazione. Alla domanda “Preferiresti andare a vivere in un altro paese occidentale o restare a vivere in Israele?”, l’80 per cento ha risposto di voler restare, mentre a giugno erano il 70 per cento.

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Sandro Magister è firma storica del settimanale L’Espresso.
Questo è l’attuale indirizzo del suo blog Settimo Cielo, con gli ultimi articoli in lingua italiana: settimocielo.be
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