Tra i leader finora incontrati da Volodymir Zelensky a Washington e nelle capitali d’Europa è sicuramente papa Francesco quello con le posizioni da lui più lontane e a tratti contrastanti.
In un inusuale comunicato emesso poco dopo la fine del colloquio tra i due a Roma, nel pomeriggio di sabato 13 maggio, Francesco ha tenuto a rimarcare che era solo uno il punto su cui entrambi si erano trovati d’accordo: gli “sforzi umanitari” per le vittime della guerra, in particolare – come ha poi precisato Zelensky in un suo comunicato – per la liberazione dei prigionieri e il rimpatrio dei bambini ucraini deportati in Russia.
In effetti, della sua cooperazione nella liberazione dei prigionieri il papa aveva già dato notizia lo scorso settembre, incontrando in Kazakistan i gesuiti di quella regione. Rivelò che “un capo militare che si occupa dello scambio dei prigionieri” era venuto a incontrarlo in Vaticano “assieme all’assessore per le questioni religiose” di Zelensky, e che lui, Francesco, subito chiamò “l’ambasciatore russo per vedere se si poteva fare qualcosa”. Il che avvenne, con lo scambio il 22 settembre di oltre 200 combattenti e di altri ancora in seguito. E ora con l’impegno del papa a fare il possibile anche per i bambini.
A mettere invece in evidenza, dopo il colloquio del 13 maggio, il punto di maggior contrasto tra i due, è stato il presidente ucraino: “Con tutto il rispetto per il papa, noi non abbiamo bisogno di mediatori”, ha detto. “Poiché la guerra è sul territorio d’Ucraina, il piano di pace può essere solo ucraino”, con riferimento al piano in dieci punti diffuso da Zelensky lo scorso febbraio.
La “mediazione” vaticana tra Mosca e Kyiv rifiutata da Zelensky è quella che è stata attribuita più volte alla volontà del papa, l’ultima volta dopo le parole dette dallo stesso Francesco di ritorno dal suo viaggio a Budapest, il 30 aprile, quando annunciò che per la pace in Ucraina “è in corso una missione, ma ancora non è pubblica”, e “quando sarà pubblica ne parlerò”.
Dopo questo sibillino annuncio, prontamente il professor Stefano Zamagni, fino al 31 marzo presidente della pontificia accademia delle scienze sociali e promotore lo scorso ottobre di un piano di pace in sei punti – da subito molto criticato per il suo sbilanciamento a favore della Russia – rilanciò quel suo piano rimarcando di vederlo oggi più che mai attuale e di averlo affidato a suo tempo alle cure della segreteria di Stato. Senza però nessuna conferma da parte di questa.
Sia da Mosca che da Kyiv si disse di non sapere nulla dell’iniziativa annunciata dal papa, mentre il segretario di Stato Pietro Parolin confermò invece che qualcosa si stava muovendo. Ma appunto, non di “mediazione” si tratterebbe ma di “missione”, dalla parola latina “missio”, che significa invio. Francesco avrebbe cioè l’intenzione di inviare a Mosca e a Kyiv due cardinali, ciascuno con una lettera-appello del papa per il cessate il fuoco, esattamente come nel 2003 Giovanni Paolo II inviò a Washington e Baghdad i cardinali Pio Laghi e Roger Etchegaray, con la richiesta scritta del papa di fermare l’imminente conflitto in Iraq. Senza trovare ascolto, come si ricorda.
Tra i vari doni in occasione dell’incontro del 13 maggio, Francesco ha offerto a Zelensky un libro con la raccolta dei suoi interventi sulla pace in Ucraina. Tra questi ce n’è uno in cui il papa dice parole chiare a sostegno della lotta armata degli ucraini contro i russi. È la “Lettera del Santo Padre al popolo ucraino” diffusa il 24 novembre 2022, nella quale a un certo punto il papa scrive: “Penso a voi, giovani, che per difendere coraggiosamente la patria avete dovuto mettere mano alle armi anziché ai sogni che avevate coltivato per il futuro”.
E più avanti: “Sono ammirato del vostro buon ardore. Pur nell’immane tragedia che sta subendo, il popolo ucraino non si è mai scoraggiato o abbandonato alla commiserazione. Il mondo ha riconosciuto un popolo audace e forte, un popolo che soffre e prega, piange e lotta, resiste e spera: un popolo nobile e martire. Io continuo a starvi vicino”.
Questa lettera era frutto, anche nello stile di scrittura, dell’incontro avvenuto a Roma il 7 novembre tra Francesco e l’arcivescovo maggiore della chiesa greco-cattolica ucraina Sviatoslav Shevchuk, fortemente solidale con la guerra patriottica combattuta anche dai suoi fedeli. E quando fu pubblicata segnò una netta svolta nelle prese di posizione del papa, che in precedenza non aveva mai detto di approvare senza riserve la difesa in armi dell’Ucraina dall’aggressione russa.
Poi però questo primo intervento del papa a sostegno della guerra di resistenza ucraina è stato anche l’ultimo. Raffreddando ancor di più i rapporti tra Kyiv e il Vaticano e nemmeno ottenendo, grazie a ciò, un miglioramento dei rapporti con Mosca.
Con Vladimir Putin, infatti, dall’inizio della guerra a Francesco non è ancora riuscito di stabilire un contatto diretto. Il 6 novembre scorso, durante il volo di ritorno dal suo viaggio in Bahrein, il papa disse di aver chiesto fin dai primi giorni, tramite l’ambasciatore russo presso la Santa Sede, di potersi recare a Mosca a incontrare Putin Ma ebbe dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov la risposta che “per il momento ciò non era necessario”. La richiesta e la relativa risposta avvennero per lettera e da allora Putin ha continuato ad essere inavvicinabile. Un’ultima lettera di Francesco a Putin sarebbe stata consegnata lo scorso 11 maggio ancora una volta all’ambasciatore russo Alexander Avdeev, ricevuto dal papa in visita di congedo. Non si sa con quale esito, mentre si attende la nomina del successore.
Eppure non sono mancate, da parte di Francesco, prese di posizione molto comprensive delle “ragioni” del Cremlino, in particolare quell’”abbaiare della NATO alle porte della Russia” additato più volte dal papa come causa scatenante dell’aggressione all’Ucraina, “senza capire che i russi sono imperiali e temono l’insicurezza ai confini”.
Questa e altre affermazioni di Francesco hanno dato corpo alla tesi che l’attuale papa segni un riallineamento geopolitico della Chiesa di Roma, non più con l’Occidente solidale con Kyiv, ma con il resto del mondo, con l’America latina, con l’Africa, con l’Asia, con Stati tutti molto restii a contrastare la Russia.
A sostenere questa tesi è stato, sulla rivista “The Atlantic”, il rinomato vaticanista statunitense John L. Allen Jr. Il quale ha fatto notare che sulla guerra in Ucraina il papa si trova di fatto più vicino alle posizioni dell’India e della Cina che a quelle europee ed atlantiche.
Con l’effetto però di trovarsi molto ai margini, privo com’è di ogni capacità di influire sulle decisioni di New Delhi e meno ancora di Pechino, una superpotenza, quest’ultima, che per di più non teme di opprimere i cattolici e di umiliare il papato, da ultimo con la nomina unilaterale alla testa della diocesi di Shanghai di un vescovo organico al regime di Xi Jinping.
Ma dai gesti e dalle parole in libertà di Francesco riguardo all’Ucraina c’è anche chi ricava una tesi del tutto diversa.
Sulla rivista “Il Regno” un altro rinomato vaticanista, Luigi Accattoli, dopo aver elencato alcune delle più temerarie sortite di Francesco, da “l’abbaiare della NATO alle porte della Russia” al “chierichetto di Putin” identificato nel patriarca di Mosca Kirill, lungi dal criticarle, ha individuato in esse il segnale di una benemerita “fuoruscita dalla tradizione statuale e diplomatica” del Vaticano, come parte del più generale “progetto di Chiesa in uscita che Francesco ha posto a motto del suo pontificato”.
A giudizio di Accattoli, “i primi passi non possono che essere fatti a tentoni”, ma “è comunque un bene che l’impresa sia tentata. Sarà opera di più pontificati”.
Tesi ardita. Nel frattempo, però, la tanto decantata diplomazia vaticana va a pezzi anche per mano di Francesco e non sarà certo la Cina, in questi giorni molto attiva sul fronte russo ed europeo col suo inviato speciale Li Hui, a farle da nuova maestra.