In Iran per i cristiani è tempo di passione. Ma il papa dà ascolto agli ayatollah

Nella “guerra mondiale a pezzi” tanto spesso denunciata da papa Francesco, la Repubblica Islamica dell’Iran è un attore tra i più agguerriti e temuti. Eppure nulla sembrava increspare i quieti rapporti tra il regime di Teheran e la Santa Sede, prima dell’attacco sferrato contro Israele pochi giorni fa.

Poche ore dopo l’attacco, al “Regina Caeli” di domenica 14 aprile, Francesco ha detto che “nessuno deve minacciare l’esistenza altrui”. Con allusione trasparente alla dichiarata volontà dell’Iran di distruggere “l’entità sionista”.

Ma è difficile capire se questo severo monito segni una svolta nei rapporti tra la Santa Sede e l’Iran. Perché fino a ieri nulla era mai parso turbarli, nemmeno le cattive notizie su come i cristiani vi sono maltrattati.

Nel messaggio “urbi et orbi” di Pasqua, nell’enumerare i focolai di conflitti e violenze nel mondo, Francesco non ha citato l’Iran. E nel discorso d’inizio d’anno al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede ne ha fatto parola solo per auspicare un rapido accordo sul nucleare iraniano e per felicitarsi dei settant’anni delle relazioni diplomatiche con Teheran, stabilite nel 1954 e non solo passate indenni ma ancor più rafforzate dopo la rivoluzione khomeinista del 1979.

Lo scorso 5 novembre, nel vivo della guerra tra Israele e Hamas, il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha chiamato al telefono papa Francesco e ha avuto con lui una lunga conversazione, il cui contenuto è stato reso pubblico da un resoconto ufficiale di Teheran.

Stando a questo resoconto, Raisi avrebbe denunciato il bombardamento di una chiesa a Gaza come esempio delle “pratiche di apartheid di Israele non solo contro i musulmani palestinesi ma anche contro altre religioni divine”; avrebbe sostenuto che difendere l’oppresso popolo di Palestina è dovere “di tutte le religioni abramitiche, compresi i cristiani”; avrebbe chiesto al papa di spendere la sua autorità in Occidente per fermare l’aggressione israeliana. E Francesco – sempre secondo questo resoconto – avrebbe “apprezzato” e condiviso le posizioni espresse da Raisi.

Ma il presidente iraniano avrebbe parlato col papa, in questa telefonata, anche delle relazioni tra l’Iran e la Santa Sede, definendole “molto buone”, in particolare per “la libertà d’azione data ai cristiani nel compiere pratiche religiose e nel godere di tutti i diritti dei cittadini”, al punto che “non solo i cristiani dell’Iran, ma anche i cristiani dell’Armenia, dell’Iraq e della Siria considerano la Repubblica Islamica dell’Iran come un loro rifugio, poiché noi difendiamo non solo i diritti dei popoli musulmani ma anche i diritti dei cristiani”. Anche qui. stando al resoconto, senza alcuna obiezione da parte dell’interlocutore.

Ma è così? I rapporti sulla libertà religiosa nel mondo pubblicati periodicamente da vari istituti di ricerca concordano nell’individuare nell’Iran uno dei Paesi che la violano più gravemente.

Così, ad esempio, “Aiuto alla Chiesa che Soffre” riassume la condizione dei cristiani in Iran documentata nel suo ultimo rapporto, pubblicato nel 2023:

“Qualsiasi attività volta a diffondere il Vangelo in Iran è contro la legge. Le Chiese non registrate, soprattutto quelle evangeliche, sono considerate nemiche dello Stato e subiscono una persecuzione sistematica. I cristiani sono spesso vittime di arresti arbitrari, detenzione e aggressioni da parte della polizia. Molti fedeli sono stati arrestati durante cerimonie religiose e accusati di crimini contro la sicurezza nazionale. Il governo impone limitazioni legali alla costruzione e al restauro delle chiese; ai cristiani sono inoltre interdette posizioni come quella di dirigente scolastico. Sono vietate le celebrazioni in lingua farsi, l’idioma nazionale, di conseguenza non si possono celebrare messe in persiano. Per lo stesso motivo non è permesso detenere Bibbie o libri sacri in persiano. La libertà, l’integrità fisica e perfino la vita dei convertiti dall’islam al cristianesimo sono particolarmente a rischio, potendo essere accusati di apostasia, un reato che prevede la pena capitale”.

Un altro rapporto molto severo sulle violazioni della libertà religiosa in Iran è stato pubblicato nel 2023 dalla United States Commission on International Religious Freedom.

E un più recente rapporto riguardante specificamente l’Iran è stato pubblicato il 19 febbraio di quest’anno da “Article 18”, sulla base dei dati raccolti da organizzazioni come Open Doors, Christian Solidarity Worldwide e Middle East Concern.

Il titolo di quest’ultimo rapporto è: “Vittime senza volto: violazioni dei diritti contro i cristiani in Iran”. E allude al fatto che un gran numero di arrestati e condannati per aver professato la fede cristiana scelgono di tenere nascosta la loro vicenda, nel timore di provocare conseguenze ancora peggiori a loro stessi o ad altri.

Uno dei casi venuti allo scoperto è la condanna a due anni di carcere che ha colpito lo scorso 16 marzo una iraniana di nome Laleh Saati, convertita alla fede cristiana e battezzata in Malaysia, dove si era temporaneamente trasferita, arrestata dopo il suo rientro in Iran con l’accusa di aver tramato “contro la sicurezza nazionale” d’intesa con “organizzazioni cristiane sioniste”, con le foto del suo battesimo esibite come prove del “crimine”. La donna è ora rinchiusa nella sezione 209 del famigerato carcere di Evin, alla periferia della capitale.

Limitando il conteggio ai casi noti, i cristiani arrestati in Iran nel 2023 sono stati 166, più che nel 2022 quando furono 134. Le rivolte delle donne contro l’obbligo del velo, seguite alla morte in carcere di Mahsa Amini, hanno segnato un aumento della repressione e anche delle esecuzioni capitali, che nel 2023 hanno toccato la cifra record di 853.

Eppure su tutto questo una sola volta il papa ha rotto il silenzio. L’ha fatto nel discorso al corpo diplomatico del 9 gennaio 2023, con queste testuali parole:

“Il diritto alla vita è minacciato anche laddove si continua a praticare la pena di morte, come sta accadendo in questi giorni in Iran, in seguito alle recenti manifestazioni, che chiedono maggiore rispetto per la dignità delle donne. Faccio, perciò, appello perché la pena di morte, che è sempre inammissibile poiché attenta all’inviolabilità e alla dignità della persona, sia abolita nelle legislazioni di tutti i Paesi del mondo”.

Contro la pena di morte Francesco si batte da tempo, ma quel che ancora una volta è mancato in queste sue parole è un cenno alla persecuzione dei cristiani, in un paese come l’Iran che per il papa continua a coltivare con la Chiesa di Roma “valori spirituali comuni, in favore della promozione della dignità della persona umana e della libertà religiosa”, come si leggeva nel comunicato ufficiale dopo l’udienza all’allora presidente iraniano Hassan Rouhani, il 26 gennaio 2016.

Il vaticanista statunitense John Allen ha individuato la radice di questa quieta relazione tra Roma e Teheran in una “naturale affinità” tra le due parti, teologica prima che politica.

In effetti la Repubblica Islamica dell’Iran è una teocrazia fondata dall’ayatollah Khomeini e tuttora retta dai capi religiosi dell’islam sciita. L’attuale presidente iraniano Raisi è anche lui un chierico sciita che ha studiato diritto nella città santa di Qom. E l’attuale ambasciatore dell’Iran presso la Santa Sede, Mohammad Hossein Mokhtari, entrato in carica lo scorso 22 dicembre, ha studiato scienze religiose e giuridiche a Qom, ha conseguito un dottorato in filosofia occidentale nell’università inglese di Durham, è stato docente e rettore di varie università in Iran e ha diretto un istituto “per l’avvicinamento delle denominazioni religiose”.

Ci sono inoltre tra il cattolicesimo e l’islam sciita delle analogie dottrinali e rituali. La festa dell’Ashura, in memoria del martirio di Husayn Ibn Ali da cui ha preso origine questo ramo dell’islam, ha qualche similitudine con il venerdì santo e la morte sacrificale di Gesù.

Per non dire della comune visione antioccidentale sia dei governanti di Teheran che di papa Francesco, e della volontà di quest’ultimo di promuovere la fratellanza con l’islam tutto, non solo sunnita ma anche sciita.

Il viaggio di Francesco in Iraq nel marzo del 2021 fu esplicitamente finalizzato a incrementare questa fratellanza. Suo momento culminante fu l’incontro a Najaf con il grande ayatollah Al-Sistani, la più autorevole guida spirituale dell’islam sciita nel mondo.

Al-Sistani, effettivamente, è personalità di eccezionale rilievo. Ma il suo ruolo di guida è fortemente controverso. È nato in Iran, ma è antitetico sia al regime politico della sua nazione d’origine, sia soprattutto alla versione dell’islamismo sciita impersonata da Khomeini e dai suoi successori. In Iraq, dove vive da molti decenni, Al-Sistani predica una convivenza pacifica tra sunniti e sciiti, e contesta alla radice la “wilayat al-faqih”, il teorema khomeinista che assegna ai dottori della legge islamica il potere politico oltre che religioso.

Infatti, le reazioni in Iran all’incontro tra il papa e Al-Sistani furono da un lato fredde, dall’altro esplicitamente ostili. La cerchia dell’attuale guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Khamenei, contesta frontalmente il primato di Al-Sistani, in nome di un khomeinismo intransigente, con sua capitale religiosa non Najaf ma Qom.

Una prova di questo contrasto si era avuta pochi mesi prima del viaggio di papa Francesco in Iraq, quando Al-Sistani rifiutò di dare udienza a Ebrahim Raisi, all’epoca capo della corte suprema iraniana, che si era recato da lui a Najaf per poi esibirne l’appoggio nella corsa per la presidenza.

Raisi diventò ugualmente presidente della Repubblica Islamica. Ed è colui che lo scorso novembre ha telefonato a Francesco per dirgli che l’Iran è amorevole “rifugio” per tutti i cristiani d’Oriente.

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Sandro Magister è firma storica del settimanale L’Espresso.
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