La guerra di Israele contro Hamas è “proporzionata”? Ecco le ragioni del sì. Con un Post Scriptum

(s.m.) La nota del pro­fes­sor Pietro De Marco sul­la guer­ra tra Israele e Hamas, pub­bli­ca­ta oggi da Settimo Cielo, è deci­sa­men­te dis­so­nan­te rispet­to ai giu­di­zi cor­ren­ti, anche in cam­po eccle­sia­sti­co.

Ma anche chi non la con­di­vi­da non può fare a meno di pre­star­vi atten­zio­ne. Perché De Marco met­te in luce pro­prio ciò che ai più sfug­ge, cioè la natu­ra par­ti­co­la­ris­si­ma del­la “guer­ra moder­na” posta in atto da Hamas, non solo oggi ma da anni, la cui logi­ca è mol­to distan­te, se non oppo­sta, a quel coin­vol­gi­men­to con le popo­la­zio­ni pale­sti­ne­si sof­fe­ren­ti, esu­li, pro­fu­ghe, che inve­ce ani­ma le cul­tu­re poli­ti­che e reli­gio­se dell’Occidente e fon­da il giu­di­zio dif­fu­so sul­la “spro­por­zio­ne” del­la rea­zio­ne arma­ta di Israele a Gaza.

Quella del futu­ro poli­ti­co dei pale­sti­ne­si è infat­ti una que­stio­ne su cui andreb­be fat­ta chia­rez­za. La solu­zio­ne dei “due popo­li due Stati”, enun­cia­ta con caden­za qua­si ritua­le dal­le can­cel­le­rie, in real­tà non è con­di­vi­sa né dal­la stra­gran­de mag­gio­ran­za degli ebrei israe­lia­ni né tan­to meno da Hamas, come ha rico­no­sciu­to Aluf Benn, diret­to­re del prin­ci­pa­le quo­ti­dia­no d’opposizione al gover­no di Benjamin Netanyahu, “Haaretz”, in un impor­tan­te sag­gio su “Foreign Affairs” del 7 feb­bra­io inte­gral­men­te tra­dot­to e pub­bli­ca­to in ita­lia­no dal­la rivi­sta “Il Regno”.

La solu­zio­ne che Benn auspi­ca per il con­flit­to andreb­be rica­va­ta dal moni­to di Moshe Dayan dopo l’uccisione nel 1956 di un gio­va­ne ebreo per mano pale­sti­ne­se: “Non dia­mo la col­pa agli assas­si­ni. Per otto anni sono rima­sti nei cam­pi pro­fu­ghi di Gaza, men­tre davan­ti ai loro occhi noi abbia­mo tra­sfor­ma­to in nostri pos­se­di­men­ti le ter­re e i vil­lag­gi dove loro e i loro padri abi­ta­va­no”.

Dayan allu­de­va alla “nak­ba”, la “cata­stro­fe”, la cac­cia­ta dal­le loro ter­re a cui furo­no costret­ti i pale­sti­ne­si dopo la guer­ra per­sa nel 1948 col neo­na­to Stato d’Israele. Solo che quei pro­fu­ghi che all’origine era­no set­te­cen­to­mi­la oggi sono più di cin­que milio­ni, sem­pre clas­si­fi­ca­ti come “pro­fu­ghi”, finan­zia­ti dal­le Nazioni Unite, e con­ti­nua­no a riven­di­ca­re il dirit­to di tor­na­re nei loro luo­ghi d’origine, dele­git­ti­man­do con ciò stes­so l’esistenza di Israele.

Su quan­to tale riven­di­ca­to ritor­no dei “pro­fu­ghi” pale­sti­ne­si ren­da inap­pli­ca­bi­le la solu­zio­ne “due popo­li due Stati” – a meno di pre­vie e con­cor­da­te garan­zie di cui oggi non si vede trac­cia – ha scrit­to un illu­mi­nan­te edi­to­ria­le sul “Corriere del­la Sera” del 18 feb­bra­io lo sto­ri­co Ernesto Galli del­la Loggia.

Ma lascia­mo la paro­la a De Marco, già docen­te di socio­lo­gia del­la reli­gio­ne all’Università di Firenze e alla Facoltà teo­lo­gi­ca dell’Italia Centrale.

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Per un giudizio di proporzionalità

di Pietro De Marco

Che la con­dot­ta, stra­te­gi­ca e tat­ti­ca, dell’esercito israe­lia­no nel ter­ri­to­rio di Gaza sia “spro­por­zio­na­ta” è un giu­di­zio ten­tan­te, e non solo per i sog­get­ti poli­ti­ci inter­na­zio­na­li tenu­ti a pren­de­re posi­zio­ne in un dif­fi­ci­le equi­li­brio tra fat­ti, schie­ra­men­ti e opi­nio­ni pub­bli­che.

Anche la Santa Sede, per boc­ca del segre­ta­rio di Stato Pietro Parolin, ha usa­to que­sta for­mu­la cau­ta (“il dirit­to di dife­sa deve esse­re pro­por­zio­na­to”, men­tre il suo eser­ci­zio da par­te israe­lia­na non lo sareb­be) ma fat­ta per sol­le­va­re la pro­te­sta del­lo Stato d’Israele. Proporzionata rispet­to a che? Quale il metro? In gene­re sono l’immagine del­le distru­zio­ni e la noti­zia dei mor­ti civi­li pale­sti­ne­si a pesa­re nel giu­di­zio, mes­se a con­fron­to con i mor­ti e i rapi­ti israe­lia­ni, talo­ra appe­na ricor­da­ti. Ma pro­via­mo a riflet­te­re.

1. Da mesi sul fron­te medio­rien­ta­le un’azione bel­li­ca di tipo misto, a domi­nan­te ter­ro­ri­sti­ca ma impre­vi­sta in que­sta for­ma, tec­ni­ca­men­te una raz­zia, ha evi­den­zia­to l’irrealismo del­la visio­ne geo­po­li­ti­ca edul­co­ra­ta pre­va­len­te in Europa e per­si­no affio­ran­te in Israele, anch’esso par­te d’Europa. Lo rive­la la strut­tu­ra del giu­di­zio mode­ra­to cor­ren­te, quel­lo del bilan­cia­men­to “et et” del­le respon­sa­bi­li­tà tra Israele e Hamas, lascian­do da par­te i pale­sti­ne­si, o del ”sì però” riguar­do al dirit­to alla dife­sa del­lo Stato ebrai­co. Nella for­mu­la man­ca del tut­to un fat­to­re: la con­si­de­ra­zio­ne dei nuo­vi sog­get­ti e sti­li del­la “guer­ra moder­na” di cui pure gli spe­cia­li­sti scri­vo­no da oltre sessant’anni, e di cui l’organizzazione che si nomi­na “Ḥarakat al-Muqawama al-Islamiyya”, in sigla Hamas, tra­dot­to con “Movimento di resi­sten­za isla­mi­ca”, è un caso spe­cia­le, per altri aspet­ti ben stu­dia­to.

Talora det­ta anche “psi­co­lo­gi­ca” (François Géré. “La guer­re psy­cho­lo­gi­que”, 1997, da cui pro­ven­go­no le cita­zio­ni) e spe­ri­men­ta­ta sul lato del­le insor­gen­ze e del­le contro-insorgenze, la cosid­det­ta “guer­ra moder­na” è costi­tui­ta da con­flit­ti che sono in atto anzi­tut­to quan­do non sono “guer­reg­gia­ti”. Sono quei meto­di e pro­ce­di­men­ti “rivo­lu­zio­na­ri” di con­qui­sta e con­trol­lo del­le popo­la­zio­ni, un tem­po pre­va­len­te­men­te con­ta­di­ne, che han­no pre­pa­ra­to, pro­tet­to e ali­men­ta­to le insor­gen­ze anti­co­lo­nia­li vere o pre­sun­te. In mano a mino­ran­ze col­te, che attin­go­no a model­li cele­bri, cine­si e rus­si, que­sti pro­ce­di­men­ti sono par­te inte­gran­te o esten­sio­ne del­la guer­ra “clas­si­ca” fat­ta di con­tin­gen­ti e arma­men­ti, e del loro movi­men­to sul cam­po. Un’estensione dota­ta per di più di auto­no­mia, per cui evo­chia­mo Hamas come sog­get­to in guer­ra, mol­to più che le Brigate del mar­ti­re ʿIzz al-Din al-Qassam, suo brac­cio mili­ta­re.

L’attacco dell’ala arma­ta di Hamas e di altre for­ze, il 7 otto­bre 2023, ha dun­que solo l’apparenza – per la sua con­du­zio­ne sel­vag­gia – di una onda­ta o di una esplo­sio­ne. Essa è piut­to­sto un momen­to visi­bi­le e san­gui­no­so del­la guer­ra già atti­va con­dot­ta da un’armata irre­go­la­re che cre­sce a Gaza nei sot­ter­ra­nei, come altro­ve in fore­ste e mon­ta­gne, e che ha pene­tra­to e sot­to­mes­so e indot­tri­na­to la popo­la­zio­ne di super­fi­cie. Nella Striscia di Gaza, assie­me alla popo­la­zio­ne, sono neces­sa­ria­men­te infil­tra­te da Hamas anche tut­te le asso­cia­zio­ni e agen­zie inter­na­zio­na­li che vi ope­ra­no. L’UNWRA, l’agenzia dell’ONU per i rifu­gia­ti, non può non esse­re un appa­ra­to con­trol­la­to da Hamas, che ne inter­cet­ta e usa le risor­se. E neces­sa­ria­men­te nes­su­na noti­zia che pro­vie­ne da sog­get­ti “ter­zi” ope­ran­ti nel­la Striscia è pro­pria­men­te neu­tra­le; tut­to è la guer­ra di Hamas, fino a ieri pre­va­len­te­men­te nel­la laten­za, oggi in for­ma aper­ta.

Insomma: men­tre le opi­nio­ni pub­bli­che e le cul­tu­re poli­ti­che e reli­gio­se occi­den­ta­li pen­sa­no con diver­so gra­do di coin­vol­gi­men­to (o solo di com­pren­sio­ne e com­pas­sio­ne), a popo­la­zio­ni sof­fe­ren­ti, tito­la­ri di dirit­ti di cui sareb­be­ro depri­va­te, men­tre psi­co­lo­gi socia­li e agen­zie pra­ti­ca­no il “pea­ce­kee­ping”, entro la popo­la­zio­ne pale­sti­ne­se si costi­tui­sco­no negli anni poten­ti reti arma­te di “resi­sten­za” atti­va. A par­te le for­me uffi­cio­se di gover­no assun­te dopo il 2007, Hamas con­trol­la e gover­na anche con la sola pre­sen­za, non­ché con la for­ma­zio­ne e la mani­po­la­zio­ne del­le gene­ra­zio­ni gio­va­ni. Non sono ipo­te­si osti­li ad Hamas que­ste; sono le rego­le di una seria pras­si rivo­lu­zio­na­ria che giun­ge a sfrut­ta­re un popo­lo e un ter­ri­to­rio come risor­sa mate­ria­le, come rifu­gio, come argo­men­to poli­ti­co, come “Hamastan”.

2. Come si pone allo­ra, in un qua­dro del gene­re, un giu­di­zio di pro­por­zio­na­li­tà che inten­da giu­di­ca­re secon­do mora­le e dirit­to, entram­bi “di guer­ra”, la rispo­sta arma­ta israe­lia­na?

Ci dico­no i giu­ri­sti che il giu­di­zio di pro­por­zio­na­li­tà – in sede gene­ra­le – ha tre fasi o dimen­sio­ni: è giu­di­zio sul­la ido­nei­tà a con­se­gui­re dei risul­ta­ti; è giu­di­zio sul­la neces­sa­rie­tà o ine­vi­ta­bi­li­tà dell’azione san­zio­na­to­ria; è giu­di­zio sul­la sua ade­gua­tez­za, nel sen­so del­la ragio­ne­vo­le pro­por­zio­ne tra azio­ne intra­pre­sa (una vol­ta giu­di­ca­ta ido­nea e ine­vi­ta­bi­le) e tol­le­ra­bi­li­tà dei costi uma­ni che essa impo­ne, al desti­na­ta­rio come anche all’attore del­la san­zio­ne.

Tutto que­sto appa­re appli­ca­bi­le a una puni­zio­ne “sui gene­ris” come è la ritor­sio­ne o rap­pre­sa­glia in dirit­to di guer­ra. E in effet­ti è su que­ste coor­di­na­te che si muo­ve, più o meno con­sa­pe­vol­men­te, il giu­di­zio cor­ren­te di osser­va­to­ri e di auto­ri­tà non sfa­vo­re­vo­li a Israele. Di vol­ta in vol­ta, a secon­da dei com­men­ta­to­ri e del­le situa­zio­ni nel pas­sa­re del tem­po, ci si eser­ci­ta sul­la ade­gua­tez­za (“non ser­vi­rà”) e spe­cial­men­te sul­la pro­por­zio­na­li­tà ossia tol­le­ra­bi­li­tà dei “sacri­fi­ci” che l’attacco israe­lia­no impo­ne (“trop­pi”). Meno discus­sa è la neces­sa­rie­tà dell’azione ritor­si­va, che appa­re in sé giu­sti­fi­ca­ta.

Ma qua­le gene­re di guer­ra è quel­lo con­dot­to da Israele? Non è una rap­pre­sa­glia. In tut­ta evi­den­za, nel­la sua stes­sa radi­ca­li­tà, è la rispo­sta alla “guer­ra psi­co­lo­gi­ca”, ovve­ro alla tra­sfor­ma­zio­ne del­la popo­la­zio­ne pale­sti­ne­se in una laten­te mac­chi­na di guer­ra e all’esercizio di que­sta guer­ra, per anni. Una guer­ra loca­le, ma mol­to più che tale.

Le guer­re loca­li che con­si­de­ria­mo “sono solo minia­tu­re del con­flit­to già aper­to su lar­ga sca­la”. In che dire­zio­ne? È l’evidenza stes­sa che la par­te più rile­van­te del­la “guer­ra moder­na”, o post-classica, in cor­so è un lavo­ro “psicologico-bellico” di demo­ti­va­zio­ne poli­ti­ca dell’avversario. “È in cor­so un con­flit­to mon­dia­le”, ricor­da François Géré, carat­te­riz­za­to “dall’uso da par­te di ognu­no degli avver­sa­ri di tut­te le for­ze di cui dispo­ne, vio­len­te e non-violente, per far cede­re l’altro bel­li­ge­ran­te, sot­to­met­ter­lo”. Nella con­giun­tu­ra attua­le que­sto disor­di­ne arma­to inten­de “costrin­ge­re l’altro a rinun­cia­re ai suoi obiet­ti­vi poli­ti­ci”. E gli obiet­ti­vi poli­ti­ci al cui inde­bo­li­men­to si mira sono i nostri, cioè la nostra esi­sten­za e la “ratio” occi­den­ta­le (che non è solo la demo­cra­zia) nel­la poli­ti­ca mon­dia­le. È la guer­ra “rivo­lu­zio­na­ria” in età post-ideologica o neo-ideologica, con mani­fe­sta­zio­ni emi­nen­te­men­te loca­li, distri­bui­te su linee di faglia tipi­che del “clash of civi­li­za­tions” teo­riz­za­to da Samuel Huntington.

3. La guer­ra di annien­ta­men­to con­tro un “vero” eser­ci­to costi­tui­to e ripa­ra­to nel­le gal­le­rie sot­to i cen­tri abi­ta­ti del­la Striscia di Gaza è, dun­que, altra cosa da una ini­zia­ti­va di ritor­sio­ne dopo il 7 otto­bre, anche se una sog­get­ti­va com­po­nen­te puni­ti­va non può esse­re esclu­sa negli israe­lia­ni. Il giu­di­zio di pro­por­zio­na­li­tà deve met­te­re in gio­co altre gran­dez­ze. Idoneità allo sco­po, neces­sa­rie­tà dell’azione e ade­gua­tez­za dei costi uma­ni impli­ca­ti riguar­da­no la capa­ci­tà di scon­fig­ge­re un avver­sa­rio loca­le ma a suo modo glo­ba­le: azio­ne neces­sa­ria per la pro­te­zio­ne e digni­tà futu­ra di Israele ma spe­cial­men­te neces­sa­ria come mani­fe­sta­zio­ne di volon­tà poli­ti­ca dell’Occidente, “erga omnes”.

E allo­ra che cosa c’è di “spro­por­zio­na­to” in que­sto oriz­zon­te e a que­sto fine? Non lo è la guer­ra israe­lia­na di annien­ta­men­to dell’avversario mili­ta­re. Non lo è la con­co­mi­tan­te azio­ne di dis­sua­sio­ne del­la costel­la­zio­ne arma­ta di for­ze anti-Israele, anzi­tut­to a gui­da ira­nia­na. Non lo è la suc­ces­si­va ripre­sa, da una posi­zio­ne vin­cen­te di sostan­zia­le inat­tac­ca­bi­li­tà loca­le e glo­ba­le, mili­ta­re e poli­ti­ca, da par­te di Israele dei nego­zia­ti con i pae­si ara­bi.

Dobbiamo osser­va­re, ter­mi­nan­do:

Il nume­ro del­le vit­ti­me? Le azio­ni mili­ta­ri nel­le aree colo­niz­za­te dal­la “guer­ra moder­na” non guer­reg­gia­ta, per defi­ni­zio­ne abi­ta­te, non pos­so­no che pro­dur­re vit­ti­me inno­cen­ti attor­no ai com­bat­ten­ti. Queste vit­ti­me sono sem­pre “spro­por­zio­na­te” (qua­le che ne sia il nume­ro, anche mol­to infe­rio­re a quel­lo pro­pa­gan­da­to) come ogni vita in sé stes­sa. Ma le per­di­te tra i pale­sti­ne­si non com­bat­ten­ti non sono sta­te e non sono, nel­le dichia­ra­zio­ni di Israele e nel­le moda­li­tà di svol­gi­men­to del­le azio­ni mili­ta­ri, per­se­gui­te come tali, né come rap­pre­sa­glia né, tan­to­me­no, come pra­ti­ca geno­ci­da.

In più: le per­di­te di civi­li fan­no par­te del cal­co­lo stra­te­gi­co dei diri­gen­ti di Hamas, che san­no di aver­ne la respon­sa­bi­li­tà. Infatti è noto a tut­ti il teo­re­ma di ogni insor­gen­za moder­na immer­sa in una popo­la­zio­ne: “Se l’avversario non ci col­pi­sce per timo­re di fare vit­ti­me abbia­mo vin­to per­ché con­ser­via­mo la nostra for­za; se ci col­pi­sce e fa vit­ti­me abbia­mo vin­to ugual­men­te, per­ché l’avversario soc­com­be, e noi ci raf­for­zia­mo, nel giu­di­zio del­la mora­le pub­bli­ca”.

Se l’avversario, cioè Israele, cioè noi, deci­de di non cede­re a que­ste rego­le poste dall’altra par­te (luci­da­men­te e cini­ca­men­te, per­ché solo que­ste le per­met­to­no di com­bat­te­re con spe­ran­za di suc­ces­so), le vit­ti­me civi­li vi saran­no. Ma noi non dob­bia­mo pre­mia­re quel “gio­co” né lasciar­gli vin­ce­re la sfi­da.

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POST SCRIPTUM — Questa che segue è una nota a com­men­to dell’analisi di De Marco invia­ta­ci da Antonio Caragliu, avvo­ca­to del foro di Trieste e mem­bro dell’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani.

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Ho apprez­za­to l’in­ter­ven­to di Pietro De Marco, che offre un qua­dro sin­te­ti­co ma pre­ci­so e pro­fon­do del­la situa­zio­ne.

Solo un paio di con­si­de­ra­zio­ni:

1. Apprezzo le tesi di Huntington, ma defi­ni­re come fa De Marco Israele “par­te d’Europa” tro­vo sia fuor­vian­te. Semmai è “par­te degli USA”. Certo, sem­pre di “fron­te occi­den­ta­le” si trat­ta, e sen­z’al­tro il rico­no­sci­men­to del­la demo­cra­zia e di una cul­tu­ra dei dirit­ti richia­ma­no a una comu­ne appar­te­nen­za. Rimane tut­ta­via la pro­ble­ma­ti­ci­tà, pro­prio per una cul­tu­ra euro­pea, di quel­l’o­smo­si tra reli­gio­ne e nazio­na­li­smo moder­no che è il sio­ni­smo. In Europa il nazio­na­li­smo è cre­sciu­to come reli­gio­ne lai­ca con­trap­po­sta alla reli­gio­ne rive­la­ta (fon­da­men­tal­men­te la Chiesa cat­to­li­ca). Il sio­ni­smo è un par­ti­co­la­ris­si­mo ibri­do, che tra l’al­tro costi­tui­sce un osta­co­lo ogget­ti­vo al con­cet­to di un’unico Stato per entram­bi i popo­li, ebrei e ara­bi.

2. Dopo settant’anni, più che di “pro­fu­ghi” si trat­ta di sra­di­ca­ti, che si ven­do­no al più poten­te e al più dispo­ni­bi­le a soste­ner­li eco­no­mi­ca­men­te in cam­bio di una stru­men­ta­liz­za­zio­ne poli­ti­ca e mili­ta­re che ne fa car­ne uma­na da oppor­re al nemi­co. Come rile­va De Marco qui ci tro­via­mo di fron­te a una guer­ra moder­na, ovve­ro a una guer­ri­glia in cui i com­bat­ten­ti sono infil­tra­ti tra la popo­la­zio­ne civi­le e se ne fan­no stra­te­gi­ca­men­te scu­do. Una guer­ri­glia ini­zia­ta con un vile atto ter­ro­ri­sti­co. Ciò che ren­de la situa­zio­ne più dram­ma­ti­ca è che Gaza è un ambien­te urba­niz­za­to. La guer­ri­glia non si svol­ge con­tro vil­lag­gi di con­ta­di­ni come in Vietnam. Quando bom­bar­di un ambien­te simi­le riman­go­no le mace­rie, non cam­pi che maga­ri puoi ripren­de­re a col­ti­va­re la pros­si­ma sta­gio­ne. Questo per dire che radi al suo­lo un tes­su­to socia­le in manie­ra mol­to più radi­ca­le e pro­fon­da. Ora, la let­tu­ra di De Marco spie­ga bene le ragio­ni poli­ti­che e mili­ta­ri per le qua­li la valu­ta­zio­ne del­la pro­por­zio­na­li­tà è dif­fi­ci­le. Però, fer­mo il carat­te­re con­tro­ver­so del­la rea­zio­ne di Israele, sareb­be dove­ro­so da par­te degli israe­lia­no pren­der­si cari­co del pro­ble­ma uma­ni­ta­rio e garan­ti­re che le case distrut­te, se non rico­strui­te come for­ma di risar­ci­men­to, non ven­ga­no rase al suo­lo per fare spa­zio a nuo­vi inse­dia­men­ti di colo­ni. Insomma, se si trat­ta di auto­di­fe­sa ci deve esse­re il rico­no­sci­men­to del dirit­to e del­la pro­prie­tà altrui. Se fai una ope­ra­zio­ne di polizia-militare per­ché quel ter­ri­to­rio è di fat­to mono­po­liz­za­to poli­ti­ca­men­te da Hamas, ti pren­di cari­co del­le con­se­guen­ze del­le tue ope­ra­zio­ni sui civi­li inno­cen­ti.

Antonio Caragliu

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Sandro Magister è fir­ma sto­ri­ca del set­ti­ma­na­le L’Espresso.
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