Il prossimo “first gentleman” potrebbe anche essere il primo ebreo alla Casa Bianca, nella storia degli Stati Uniti. Doug Emhoff, 60 anni, marito della candidata democratica alla presidenza Kamala Harris, è nipote di ebrei polacchi emigrati oltre Atlantico per sfuggire all’Olocausto.
Nato a Brooklyn, cresciuto in New Jersey, ha frequentato una sinagoga riformata, il Temple Shalom, dove a 13 anni ha fatto il Bar Mitzvah, il rito che segna l’ingresso nella comunità. Ma presto ha smesso di recarsi al tempio, da ebreo più per cultura che per fede. I figli del suo primo matrimonio, con la produttrice cinematografica Kerstin Mackin, Cole ed Emma, non li ha educati nella Torah.
Divenuto avvocato, si è trasferito a Los Angeles, nell’intrico degli affari di Hollywood. Lì ha conosciuto Kamala Harris, la “procuratrice di ferro” della California. Si sono sposati nel 2014, in una cerimonia officiata dalla sorella di lei, Maya, appartenente alla Church of God di Oakland. Kamala, cresciuta dalla madre indiana nella fede induista, frequenta da anni la chiesa battista di San Francisco guidata dal reverendo Amos Brown, ma a casa continua a celebrare il Diwali, la festa delle luci indù. È tipica esponente della scena religiosa degli Stati Uniti, dove i passaggi da una religione all’altra e i matrimoni interreligiosi sono sempre più frequenti.
Ma dal 2021, da quando Harris diventa vicepresidente, anche per Emhoff arriva la svolta. Abbandona l’avvocatura e si trasferisce a Washington: “Sono diventato avvocato perché odiavo i prepotenti, ma voglio continuare a difendere i deboli”. Il presidente Joe Biden lo nota e affida proprio a lui una task force contro le discriminazioni. Che molto presto si focalizza contro l’antisemitismo. Nel gennaio del 2023 si reca ad Auschwitz, negli Stati Uniti va dovunque a incontrare gli ebrei, specie nelle scuole: “Non mi rendevo conto, all’inizio, di quanto questo mio ruolo fosse così importante, non solo per la comunità ebraica, ma per me stesso. Mi ha aperto gli occhi. Mi ha portato molto più vicino alla mia stessa fede”.
E così, a Washington, ha attaccato le “mezuzah”, gli astucci cari ai farisei che custodiscono passi delle Scritture, alla porta della residenza vicepresidenziale. Ha ricominciato ad accendere le luci della festa di Hanukkah. È stato il primo a celebrare alla Casa Bianca i “seder”, le cene pasquali. Dopo il 7 ottobre 2023, dopo la strage compiuta da Hamas e col crescere dell’odio a Israele e agli ebrei soprattutto nelle università americane, la sua attività si è fatta sempre più intensa. Alla convention di Chicago dello scorso agosto, quando Kamala Harris è diventata ufficialmente la candidata democratica alla presidenza, ha invitato a parlare i genitori di uno degli ostaggi di Hamas, il cittadino americano Hersh Goldberg-Polin. Il quale poche settimane dopo sarebbe stato uno dei sei ritrovati uccisi nei sotterranei di Gaza.
“Amo essere ebreo”, disse Emhoff alla convention di agosto. “Amo tutto dell’essere ebreo e vorrei gridarlo a tutti. Da ‘first gentleman’ e da primo ebreo alla Casa Bianca vi prometto che continuerò questa lotta contro l’antisemitismo”. Formalmente, il “first gentleman” non ha un ruolo predefinito. Ma può fare molto. Basti pensare al peso effettivo che hanno avuto le “first lady” Hillary Clinton e Michelle Obama.
Non sorprende che nel fronte avversario si cerchi di sfruttare l’ebraismo di Emhoff per indurre a votare Donald Trump gli elettori pro-palestinesi, come ad esempio la numerosa comunità islamica del Michigan, uno degli Stati più in bilico tra democratici e repubblicani. Il guaio, per loro, è che Emhoff non è facile da girare in macchietta. Non è un Bernie Sanders, il celebre senatore d’ultrasinistra del Vermont, descritto dal giornalista e rabbino gay Jay Michaelson come il perfetto rappresentante del “socialista democratico ebreo, praticamente ateo, residuo di quella vecchia sinistra del ventesimo secolo”. No, Emhoff è un ebreo del ventunesimo secolo, senza facili stereotipi, dal gran sorriso e dagli occhi dolci, con la prima moglie divenuta amica dell’attuale, e con i figli del primo matrimonio che chiamano affettuosamente “momala” la loro seconda mamma, tutto l’opposto di quel “gattara senza figli” appioppato a Kamala Harris dal vice di Trump, il cattolico J. D. Vance.
Insomma, alla Harris basta avere al suo fianco il marito per coltivare l’elettorato amico di Israele, dopo aver lasciato cadere l’ipotesi, pur soppesata fino all’ultimo, di scegliere come candidato alla vicepresidenza un altro ebreo di valore come Josh Shapiro, governatore della Pennsylvania.
Senza contare che tra i suoi consulenti la Harris si avvale anche di un altro ebreo dalla comprovata esperienza, Philippe Reines, già addetto stampa di Hillary Clinton quand’era segretaria di Stato, durante la presidenza di Barack Obama.
Reines è cresciuto a New York con la nonna e la madre, Judith, e ha frequentato a Ramaz la scuola neortodossa d’élite dell’Upper West Side. È tra gli animatori di “October 7 Project”, organizzazione che combatte la disinformazione sulla guerra tra Israele e Hamas. È stato lui a istruire passo passo la Harris su come affrontare e sconfiggere il rivale Donald Trump nell’unico duello televisivo fin qui da loro compiuto.
Inoltre, con curiosa coincidenza, il 16 settembre papa Francesco ha accolto come nuovo ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede Aaron Sideman, 57 anni, un diplomatico che gli Stati Uniti li conosce bene, avendo svolto proprio lì gran parte della sua attività, da ultimo come console generale in Pennsylvania, Ohio, Delaware, West Virginia, Kentucky e nell’area meridionale del New Jersey, e in precedenza come responsabile per il Nord America presso l’Ufficio per la diaspora e gli affari interreligiosi del ministero degli esteri israeliano. L’asse tra Israele e gli Stati Uniti ha in lui un operatore sperimentato, di cui la diplomazia vaticana terrà sicuramente conto.
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Sandro Magister è stato firma storica del settimanale L’Espresso.
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